17 – 1985-1989, La mia infanzia Venezuelana – Seconda Parte

di Francesca

Gli anni più belli della mia vita: il ritorno in Venezuela, prima di Chavez.

1985-1989, La mia infanzia Venezuelana – Seconda Parte

Casa nostra era un vero porto di mare, sempre piena di bambini, ragazzini, animali ed amici dei miei genitori (l’ordine sparso è decisamente voluto).

Ricordo il salotto sempre disordinato e chiassoso, le colazioni tutti insieme a base di torri di pancakes piene di sciroppo d’acero, fiumi di spremuta d’arancia, uova strapazzate e marmellate di mango e papaya. Mi sembra ancora di sentire il carillon e lo scampanellio del carretto dei gelati EFE che girava tra le stradine della nostra quadra e di rivedere noi ragazzini correre in strada con qualche bolivar tra le mani, impazienti di acquistare orridi e chimicissimi gelati dai gusti e dai colori improbabili.

Adoravo quelli nella confezione di plastica a forma di cono perché nella punta avevano sempre una di quelle cicche da masticare fosforescenti, che dopo tre secondi in bocca diventavano cartone inodore, insapore ed incolore.

Un carillon lievemente diverso da quello dei gelati annunciava l’arrivo dei venditori di chicha, una bevanda a base di latte, riso e cannella molto bevuta in Venezuela.

Per un breve periodo Egidio aveva fatto venire il figlio Ivan in vacanza a Margarita. Lui e mio fratello, coetanei, erano diventati amici, quindi Ivan quell’estate aveva frequentato molto casa nostra.Gli sarò per sempre grata per avermi fatto ascoltare e scoprire un gioiello come la “Charlie Pirla Dance” (con tanto di suggestiva coreografia), perla inarrivabile della musica trash degli anni ’80.

La mia famiglia e altri animali

Un pomeriggio, insieme a mio fratello, avevano preso le chiavi dell’auto (avevano 12 anni) e pensato bene di scorazzare per Jorge Coll fino a quando, una curva presa un pochino stretta, li aveva fatti schiantare contro il cancello di una villa dove si stava svolgendo una tranquilla festicciola di bambini in piscina, fortunatamente senza vittime. Quanto agli animali volutamente adottati avevamo cinque gatti: Federico, Filippo, Margarita, Baghera e Lucia.

Quest’ultima era la sola sopravvissuta della cucciolata di Baghera e l’avevamo fatta nascere la notte del 13 dicembre (mio fratello in verità, io avevo fatto da supporto morale) letteralmente svitandola dalla pancia della madre che non ne voleva sapere proprio di partorirla. Devo dire che, poverina, non fu mai un gatto particolarmente normale. Oltre ai gatti avevamo tre cani: il pastore tedesco Axel, la barboncina Carlotta e Fantasia, una bastardina che ogni sera fuori da El Yate aveva chiesto per diversi mesi la sua razione, fino a quando una notte i miei l’avevano caricata in macchina e portata da noi. Mettum e Ulla, i pastori tedeschi di mio padre, erano purtroppo morti entrambi qualche mese prima di tornare in Venezuela.

Avevamo anche una coppia di pappagalli isterici: Maria Guevara e Pedro Gonzalez, così chiamati in onore di due personaggi importanti della cultura locale. Pedro Gonzalez era stato il fondatore della cittadina di La Asunción di Margarita, mentre, secondo una antichissima leggenda, Maria Guevara sarebbe stata una meravigliosa meticcia di Cumaná che aveva combattuto per la sua Terra, durante la Guerra di Indipendenza. Che sia stata o no un personaggio realmente esistito poco importa, perché in ogni caso dal 1974 le due colline gemelle ubicate al centro dell’isola, vicino alla laguna de La Restinga, sono state dichiarate monumento naturale e denominate “Las Tetas María Guevara” (le tette di Maria Guevara). Queste colline, con i loro 75 metri di altezza, rappresentano da sempre un punto di riferimento importante per i pescatori locali e per i traghetti in arrivo sull’isola.Infine l’ultimo componente della nostra strana famiglia era Porsche, una tartaruga immensa, tutto fuorché lenta, che ci eravamo ritrovati in giardino una mattina dopo un violentissimo temporale tropicale.

Oltre agli ospiti fissi di casa transitavano nei nostri spazi comuni un sacco di altri animaletti: gatti randagi, un solitario serpente che non voleva saperne di andarsene, variopinti pappagalli di ogni specie e stazza, insetti orribili e roditori di varia natura.

La cucaracha ja no puede caminar

Le case allora erano provviste, in perfetto stile tropicale, di una fila di finestrelle posizionate proprio sotto il tetto, non dotate di vetro che fungevano da prese d’aria. Inutile dirvi che da quelle fessure entrava e usciva di tutto e non era affatto insolito trovarsi uno scorpione sul piede mentre si stava facendo la doccia, un uccello appollaiato sull’armadio a darti il buongiorno quando aprivi gli occhi la mattina, una tarantola sullo specchio del bagno mentre ti asciugavi i capelli o ancora dozzine di “cienpies” (orrendi centopiedi tropicali velenosissimi, della famiglia delle scolopendre), che passeggiavano in salotto. Senza contare le intere flotte di cucarachas che, rispetto al resto della fauna, risultavano persino belline. La mia fobia per gli insetti arriva da lì, la mia fissa di girare scalza anche.

La mia mania di guardare nelle scarpe prima di metterle pure. Non era infrequente, infatti, che i gatti, per farci sapere quanto fossero capaci cacciatori, depositassero nelle nostre scarpe le prede uccise nella notte, così che spesso capitò che appena sveglia dovessi affondare il piede in un topino, un uccellino, un cucciolo di yguana o qualche insetto. Se con tutti gli altri animali avevamo imparato a convivere con tolleranza, le scolopendre, in quanto potenzialmente pericolose, venivano combattute con veemenza da tutti i componenti della mia famiglia per semplice sopravvivenza. Velenosissime, infatti, se avessero punto uno dei nostri animali ne avrebbero causato la morte certa.

Così che io e mio fratello eravamo ormai stati addestrati ed ogni volta che incappavamo in uno di quei robi orrendi lo portavamo nel patio, lo tagliuzzavamo in pezzetti con il machete (non perché fossimo dei megalomani ma solo perché là non c’è giardino senza machete, un po’ come se fosse un rastrello o una vanga nei giardini italiani. Si usano per tagliare la frutta e per farsi spazio facilmente nella fitta vegetazione caraibica), davamo una spruzzatina di alcool e lanciavamo un fiammifero.

Lo spettacolo che ne derivava era un po’ macabro, perche ogni pezzetto dell’anellide continuava a muoversi su se stesso tra le fiamme. L’odore del loro carapace arso dal fuoco ricordava quello dei gamberi e dei crostacei alla griglia, a tal punto che a lungo non riuscimmo a mangiare crostacei, per lo schifo che suscitava in noi l’associazione di idee.Nei fine settimana, soprattutto di domenica quando i nostri genitori riuscivano a staccare dal ristorante, andavamo al mare tutti insieme.

Potevamo godere della presenza di Luca a Margarita e riuscivamo a trascorrere qualche attimo di tranquillità. Le spiagge di Playa el Agua e Playa Parguito che tanto amo e che poi sono le sole che frequento quando mi trovo sull’isola, erano allora troppo ondose e mosse per noi bambini, soprattutto considerato che almeno una volta alla settimana qualcuno spariva tra le onde trascinato via dalle correnti senza riuscire a tornare a riva. Tuttavia mio fratello ed io adoravamo già da piccoli il mare turbolento di Playa El Agua e di tanto in tanto riuscivamo a regalarci qualche ora sulle tavolozze da surf ruvide a prendere onde, con la pancia tutta graffiata.

Questo era possibile solo quando mia nonna non decideva di volerci rovinare la domenica prenotando per lei e mio fratello il volo per Caracas pomeridiano e non quello serale, impedendoci di trascorrere la domenica al mare. La loro posizione a nord dell’isola, lontano da Porlamar, e i lunghi tempi necessari per raggiungerle (le sole strade esistenti allora erano percorsi sterrati e scomodi nella foresta) non sempre ci permettevano di frequentarle durante la settimana, così che erano le “spiagge della domenica”, mentre negli altri giorni andavamo più frequentemente al mare sulla spiaggia dell’Hotel Concorde e su quella del Circulo Militar. Il Concorde era un grande e lussuoso albergo situato nella zona orientale dell’ isola, non lontano dal morro da cui non era raro scorgere gruppi di delfini luccicanti saltellare tra le onde all’ora del tramonto.

L’incendio dell’Hotel Concorde

Con la sua bella spiaggia, l’immenso e curato giardino tropicale, le piscine con scivoli e ponti scenografici e il numero elevato di piani e stanze rientrava tra i tanti ambiziosi progetti ideati e concretizzati negli anni ’70, nel periodo d’oro di Margarita. Noi bambini eravamo spesso lì, dove potevamo trascorrere giornate di mare spensierate e in piena sicurezza. Questo accadde con regolarità fino ad una notte di fine novembre del 1987, quando un improvviso corto circuito causò un incendio che avrebbe completamente raso al suolo il Concorde. Quell’incidente fu una vera e propria tragedia e a lungo sull’isola non si parlò di altro, non solo perché aveva colpito alcuni tra gli esponenti più in vista della società margaritena e venezuelana, causando la morte di diverse persone, ma perché oltretutto si era verificata tristemente durante il ricevimento di nozze di due giovani rampolli della buona società locale.

Il 28 novembre, infatti, circa 400 invitati avevano incominciato a riempire i lussuosi saloni dell’hotel intorno alle nove di sera, brindando alla salute e alla felicità dei neo sposi Roxana María Fermín Sambrano e Christopher Paul Scipione. Roxana María faceva parte di una nota famiglia proprietaria di una nota casa farmaceutica dell’isola, che aveva fatto anche numerosi investimenti immobiliari, mentre Christopher proveniva da una benestante famiglia di Stamford.

Tra gli invitati figuravano persone di spicco quali Gustavo Fermín e sua moglie Lorena Catalano, figlia del commerciante Giovanni Catalano e  cugina di Jesús Noriega Ordaz, Segretario Generale del partito democristiano COPEI. Gustavo e Lorena avevano festeggiato il proprio matrimonio in quelle stesse sale sette mesi prima e quella notte, senza saperlo, vi erano tornati per morire. Il salone “Nueva Esparta”, dove si svolse il banchetto, era situato nell’area “Fiestas” al quarto piano del Concorde, accanto alle più modeste sale congressuali “Margarita”, “Coche” e “Cubagua”, tutte comunicanti. Di queste gli ultimi due spazi erano stati adibiti a deposito, in cui erano stati stipati mobili, tappeti e arredi di alcune stanze dell’hotel in rifacimento e risultavano inagibili. Intorno alle 4.00 del mattino un corto circuito del pannello elettrico posizionato nella Sala Cubagua causò una forte esplosione che portò all’incendio.

Le fiamme si propagarono velocemente e in pochi attimi, lo sfarzo ed il lusso di quegli spazi, la musica, le luci e l’allegria delle persone ancora presenti, vennero inghiottiti dal buio, dal silenzio, da un fitto fumo nero e impenetrabile e da fiamme alte oltre 25 metri. Fu un accadimento realmente triste, che sollevò ogni sorta di chiacchierio ed innumerevoli versioni dei fatti. Quella che ho appena riportato sembrerebbe essere stata la più attendibile, data dai pochi sopravvissuti di quella notte e riportata sui quotidiani locali. Molti parlarono di un incendio doloso, volutamente appiccato dall’ex fidanzato della sposa, colto da un attacco di gelosia. Altri diedero la colpa ai gestori dell’albergo e allo scarso sistema di sicurezza. In ogni caso si parlò a lungo del Concorde e di quel triste matrimonio e si diffuse la voce che ciò che dell’hotel era rimasto fosse infestato dai fantasmi, tanto che a lungo nessuno volle investire e tentare di far rinascere la Fenice dalle proprie ceneri. Terminata tristemente l’epoca del Concorde, durante le vacanze e i fine settimana iniziammo a frequentare con assiduità il Circolo Militare di Pampatar, club privato dell’isola che offriva una spiaggia curata, diverse piscine, bar e ristoranti e dove spesso si svolgevano concerti, mostre e spettacoli di varia natura. Fu proprio qui che la mia scuola organizzò il saggio di danza di fine anno. I miei genitori mi hanno raccontato dozzine di volte di quando, convinti di assistere alla loro bambina volteggiante in tutù rosa, si ritrovarono di fronte al triste e deprimente spettacolo di un branco di bambine sotto i dieci anni che più che ballerine sembravano, per riprendere la definizione elegante ed originale di mia madre, “mignotte thailandesi”.

Ho foto compromettenti di quel saggio in cui io e le mie compagne di classe ci dimenavamo a ritmo di “no controles” delle Flans, come piccole Lolite con gonnellina minuscola, top variopinto e fascia in testa di fronte ad un pubblico che oltre i genitori comprendeva una cinquantina di militari euforici che ci fischiavano e gridavano cose non proprio adatte a delle bambine. Considerato che l’andazzo sull’isola a lungo andare sarebbe stato quello e che alcune compagne di scuola di pochi anni più di me erano incinta, fu in quel momento esatto che i miei capirono che stavo crescendo e che a breve avrebbero dovuto prendere una decisione e decidere tra Italia e Stati Uniti dove trasferirsi. Nonostante questi aspetti non troppo rassicuranti l’isola era ancora un posto abbastanza sicuro, o almeno senz’ombra di dubbio era stato un ottimo posto dove crescerci, a contatto con la natura, anche se forse stava arrivando il momento di lasciarla per sempre. Il Carnevale, come la notte di Halloween e il Natale, era qualcosa di unico e meraviglioso. Uno spettacolo pittoresco che vedeva e voleva tutti, grandi e piccini, travestiti.

Una di quelle festività stupende che caratterizzavano la vita di Margarita e regalavano allegria e colore al Paese, prima che l’avvento di Chavez ne cancellasse ogni traccia, in quanto “simboli spiccatamente americani”. Per giorni interi sfilavano nelle strade di Margarita enormi e coloratissimi carri. La musica assordante risuonava nelle vie portando allegria in ogni luogo, mentre ballerine in scenografici abiti e costumi sfarzosi si dimenavano a ritmo di merengue, salsa e joropo, lanciando dolci e caramelle alle persone in strada.Anche il Natale era un momento unico.

Il Ristorante El Yate

Credo che per la maggior parte delle persone risulti difficile immaginare di trascorrerlo cullati dal vento caraibico in riva al mare all’ombra di una palma. Tuttavia ho trascorso dei Natali meravigliosi sull’isola. I miei genitori non mancavano mai di addobbare ogni angolo della nostra casa e del giardino, così come de El Yate che diventava un vero e proprio villaggio di Natale tra dicembre e gennaio.  Ogni palma di Margarita veniva ornata di lucine che di notte regalavano uno spettacolo meraviglioso e i negozi si riempivano di addobbi di ispirazione statunitense. Da Rattan, grande centro commerciale tuttora esistente sulla Avenida 4 de Mayo, iniziavano ad allestire e a vendere alberi, addobbi e decori già a a fine Agosto e lo spettacolo che ne derivava era realmente suggestivo.

Le feste e le tradizioni natalizie erano numerose, così come i mille piatti tipici sempre presenti ad ogni cena e festa nel periodo di Natale.

I perimetri delle villette e dei tetti delle villette di ogni quartiere venivano decorati con lucine da esterni, e non era raro avvistare luminarie forse lievemente kitsch, ma senz’ombra di dubbio scenografiche, a forma di renne e di slitte sui tetti e nei giardini delle case, nei quartieri residenziali.

Il regalo più speciale: casa di bambola

Ricordo bene l’ultimo Natale trascorso a Margarita per il regalo speciale che mi fecero i miei genitori. Quell’anno infatti avevo capito che ci fosse qualcosa di strano nell’aria quando, ad inizio ottobre, avevano chiuso a chiave la veranda della nostra casa di Jorge Coll, dicendo che dopo una grande pioggia si era allagata.

I miei sospetti erano poi stati alimentati dai rumori continui che vi provenivano in ogni ora del giorno e della notte durante i fine settimana. Capii solo il 25 dicembre mattina, al mio risveglio, cosa fosse accaduto per oltre tre mesi nella veranda. I miei, infatti, avevano costruito per me la più bella casa delle bambole che potessi mai sognare di avere.

Era di legno, su ruote e riuscivo a entrarci completamente, sdraiandomici dentro. La casa era immensa, completamente arredata. Divani, tende, sofà e letti erano stati fatti da Egidio, perfette minuscole riproduzioni di arredi veri, mentre mio padre aveva messo a punto un vero e proprio impianto elettrico con tanto di lampadari, interruttori e lampadine minuscole. Mia madre aveva dipinto arredi, quadri, pareti e fiori ad ogni finestra. Quello fu sicuramente uno dei Natali più felici della mia infanzia.

Tuttavia, nonostante i mille aspetti bellissimi della nostra vita e dell’isola di quegli anni, tante cose non andavano bene. Margarita da lì a poco avrebbe iniziato a cambiare faccia.

Inoltre il golpe, il Caracazo, mio fratello lontano ed io che avevo iniziato a frequentare lezioni da privatista e vivere al mare con i pescatori perché la scuola locale lasciava desiderare, rappresentavamo motivi più che sufficienti per considerare di lasciare il Venezuela. Si trattava solo di capire se tornare alle origini rientrando in Italia o svoltare del tutto pagina considerando un trasferimento negli USA. Fu così che i miei optarono per la prima opzione e così io presi la strada che mi ha portato ad essere dove sono oggi, come sono oggi. Mi sono chiesta mille volte cosa sarebbe accaduto se non fossi tornata in Italia, ma sono così felice di avere accanto tante persone di questa vita, che penso mi sarebbe dispiaciuto non incontrare comunque.

Tutto sarebbe cambiato da lì a poco e presto avrei lasciato alle spalle uno dei periodi più felici della mia vita per iniziare una fase completamente nuova e diversa. A Milano.

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