19 – Ultimi mesi in Venezuela e Caracazo

di Francesca

Il Paese, l’isola, stavano cambiando faccia.

Erano ancora famose e frequentate mete turistiche ma tanti aspetti lasciavano intendere che ci si stesse allontanando progressivamente dalla “Venezuela Saudita” dei tempi d’oro, facendo presagire un cambiamento imminente, come quando in estate l’aria odora improvvisamente di terra umida e si carica di elettricità prima di un temporale.

Non ero che una bambina alla fine degli anni’80 e i miei ricordi relativi a quel periodo sono comprensibilmente molto confusi. Ciò nonostante alcuni stralci di quegli ultimi mesi trascorsi in Venezuela sono sopravvissuti nella mia memoria. Sono felice di aver avuto la possibilità di tornare sull’isola diverse volte negli anni successivi e di aver avuto così altre occasioni per non legare quel luogo solo a un bruttissimo momento e alle ultime scene che hanno fotografato i miei occhi di bambina. Oggi, a più di vent’anni da allora, devo dire che le cose, tristemente, avevano solo già preso il loro corso e che il Paese aveva già intrapreso il cammino che lo avrebbe inevitabilmente portato al deprimente panorama odierno.

Furono quelli, infatti, i primi passi compiuti per arrivare lentamente a ciò a cui oggi assistiamo inermi ed avviliti: la povertà allarmante e la delinquenza, la migrazione in Europa e negli USA delle più importanti e facoltose famiglie del Paese, la disperazione di chi invece lì è rimasto per mancanza di alternative, ancora più impoverito di allora.

La morte lenta del turismo e di ogni attività che portasse gente e denaro al Venezuela, Chávez, arrivato pieno di promesse prima di perdersi tra i suoi fantasmi, le sue ipotesi complottiste, la prepotenza e la megalomania arrivate con gli anni e con il potere. La censura imposta alle radio e alle tv, gli espropri continui, la disinformazione della stampa occidentale in merito a quanto accadesse realmente nel Paese, le coalizioni e gli “aiutini” a Cuba, i colpi di stato, le rivolte del popolo, la corruzione, le bugie, le prepotenze, i movimenti studenteschi, la chiusura verso gli USA, quando l’influsso americano caratterizzava così magnificamente un Paese speciale, perla rara e bellissima, sempre straordinariamente in bilico tra Nord America, modernità, avanguardia e America Latina, con i suoi colori, i suoi panorami meravigliosi e la sua posizione tropicale. Mi fa tanta tristezza pensare che oggi il Venezuela non sia altro che un luogo inadatto al turismo, pericoloso per chiunque, nominato solo quando cade l’ennesimo aereo a Los Roques per mancanza di manutenzione e pezzi di ricambio, per l’assassinio di una ex miss (quando di morti analoghe solo nel 2013 se ne sono registrate circa 20.000) o nelle serie tv, come luogo perfetto per rifugiati politici, terroristi e delinquenti.

Oltretutto non sopporto questo mio esilio forzato e il fatto di non sapere quando e se le mie bimbe metteranno mai piede nella loro seconda casa.

1989 – EL CARACAZO

Nel luglio del 1989 avrei compiuto 9 anni. Pochi per non pensare di regalarmi una vita migliore e più sicura, troppi per continuare ad affidare la mia formazione culturale e caratteriale a maestri privati, all’oceano, all’isola, ai pescatori, alla spiaggia e ai tempi risicati dei miei genitori, sempre presi tra El Yate e gli alberghi. La scuola frequentata a singhiozzo a Porlamar non era decisamente il massimo, la lontananza da mio fratello che studiava e viveva a Caracas complicava le cose e il Paese iniziava a mostrare un secondo lato della medaglia, meno luccicante e bello rispetto a quello visto e assaporato fino a quel momento. Nei primissimi giorni di febbraio di quello stesso anno era salito per la seconda volta alla Presidenza della Repubblica del Venezuela Carlos Andrés Pérez (conosciuto come CAP), candidato del partito socialdemocratico Azione Democratica, membro dell’Internazionale Socialista, organizzazione della quale CAP era vicepresidente. Dopo un precedente periodo presidenziale (1974-1979) caratterizzato da politiche nazionalizzatrici, da opere pubbliche e programmi sociali, CAP disponeva di una solida reputazione politica di democratico e terzomondista. Con un’inflazione annuale del 29,5% nel 1988 ci si attendeva un “pacchetto economico”, che il candidato aveva già annunciato, anche se non in maniera concreta, con il nome di “Programa Nueva Venezuela”, basato su un prestito condizionato del Fondo Monetario Internazionale (FMI) di 4 miliardi e mezzo di dollari.

Pérez fece in modo di divulgare il ragionamento secondo cui ogni nuovo prestito futuro del FMI dipendeva dall’accettazione delle condizioni del primo. Il programma dettagliato venne presentato al popolo tramite tv: il prestito era subordinato all’abbandono delle sovvenzioni al debole settore industriale, alla privatizzazione delle imprese pubbliche, una seconda svalutazione del bolívar e una liberalizzazione dei prezzi, in particolare quelli dei combustibili. Si trattava quindi di una resa totale del Paese di fronte alle condizioni del FMI. Impoverire la maggioranza per accedere a crediti che avrebbe dovuto trovare senza problemi data la sua condizione di grande esportatore di petrolio.

Doveva accelerare il suo indebitamento e un impoverimento della popolazione che si prolungava già da più di un decennio. La riduzione automatica del potere d’acquisto dei salariati e l’aumento dei prezzi del combustibile ebbe ripercussioni immediate in particolare sui prezzi del trasporto pubblico, così che gli autobus non esitarono ad aumentare le loro tariffe quello stesso giorno perfino del 200%. Tutto questo veniva a verificarsi in un momento giá molto complicato, caratterizzato da scioperi, movimenti studenteschi e proteste di varia natura. Nemmeno tre settimane dopo che CAP aveva preso possesso della Presidenza del Paese, il 27 febbraio a Caracas esplose una grandissima protesta di vasti settori della popolazione.

La violenza nelle strade

La manifestazione si tramutò in pochissime ore in un’insurrezione violenta con saccheggi e devastazioni. La rivolta si estese rapidamente anche in altre città del Venezuela ed il presidente mandò contro la folla l’esercito, che aprì il fuoco. In ogni città e sull’isola, per arginare le sommosse popolari, venne stabilito il coprifuoco così che dalle 17:00 fino all’alba non era possibile circolare nelle strade. I miei genitori, avendo attività in ambito turistico, ottennero come altri un permesso speciale per poter circolare in auto per l’isola anche di sera. Non si potevano superare i 30 Km/h e le disposizioni erano che si tenesse con una mano il volante e con l’altra il proprio documento di identità. Ogni 100 metri un posto di blocco imponeva di fermarsi, mostrare i documenti, farsi una chiacchieratina con il militare di turno e farsi vedere molto molto spaventati perchè quella del terrore fu la politica intrapresa dall’esercito in quei giorni. Dovevi ogni volta pregare di non incappare in qualche civile malato di mente che dopo aver guardato un paio di volte “Rambo” si fosse, senza permesso alcuno, infilato in abiti mimetici impugnando un mitra e legandosi un machete ai fianchi. Rispetto a Caracas e ad altre città del Venezuela la situazione sull’isola fu tutto sommato contenuta, ma il coprifuoco e la prepotenza dell’esercito si videro anche lì.

Ricordo che una sera i miei genitori, mio fratello ed io salimmo sulla terrazza posta all’ultimo piano di uno degli hotel dei miei nonni e guardammo a lungo il triste panorama della Avenida Santiago Mariño e della 4 de Mayo deserte.

Quella sera assistemmo al bruttissimo spettacolo di un povero uomo in ginocchio costretto a percorrere così almeno un km, con un militare alle sue spalle che gli puntava un’arma alla testa. La cosa curiosa di quei giorni di tumulti e di paura è che tutti i Paesi mandarono aerei e soccorsi per recuperare i propri concittadini. Lo fecero la Spagna, la Francia, il Canada e con loro molti altri. Tutti tranne l’Italia che, già allora priva di una politica di tutela dei propri cittadini all’estero, si dimenticò di tutti gli italiani in pericolo nel Paese. Il massacro avvenne il 28 febbraio, quando le forze di pubblica sicurezza della Polizia Metropolitana (PM), l’Esercito Nazionale del Venezuela e la Guardia Nacional (GN) uscirono in strada per controllare la situazione. Gli scontri con la polizia cominciarono quello stesso giorno, così come gli attacchi ai negozi i cui proprietari avevano raddoppiato e triplicato i prezzi dei loro prodotti in parallelo all’aumento del prezzo del trasporto pubblico. La mia famiglia era indubbiamente in una situazione privilegiata ma il tasso di povertà del Paese era intorno all’80% –58% di povertà estrema. I saccheggi si accentrarono sulle attività commerciali di beni di consumo che avevano aumentato i prezzi, così come sulle banche e sui posti di polizia. Le grandi catene generaliste della televisione, si orientarono fin dal primo momento a fomentare la paura della popolazione, presentando la rivolta come una minaccia generale per la pace ed esigendo un intervento di forza.

Fu subito panico! Per mettere in atto la repressione, il Governo decretò la sospensione delle garanzie costituzionali e l’introduzione della legge marziale, carta bianca che rese possibile l’uso della forza militare contro la popolazione civile, indotto il coprifuoco per limitare le rivolte e una repressione particolarmente dura, specialmente nei cerros, quartieri poveri della periferia della capitale e delle città dove si verificò la sollevazione (Maracay, La Guaira, Barquisimeto, Mérida, e altre).

Di quei giorni ho il ricordo della paura e di città fantasma. Dei controlli dell’esercito, delle rivolte del popolo e dei saccheggi, delle macchine incendiate per strada e della tv sempre accesa in salotto, unica finestra sulla vita esterna. Margarita era tutto sommato un luogo dimenticato e privilegiato e a lungo sarebbe rimasto un posto sicuro. Almeno fino a quando, nell’ultimo decennio, il recente Governo non ha pensato bene di insediare su un’isoletta di pacifici pescatori gli sfollati dalle alluvioni dei quartieri più malfamati di Caracas e intere famiglie di Cubani, trasformandola così, in un lampo, in un luogo pericoloso e buio in mezzo al mare. Tornando al Caracazo, si sa tristemente che i morti furono moltissimi.

Il Governo avrebbe ammesso in seguito cifre ufficiali di morti di 276 persone ma successive stime indipendenti parlano di una cifra molto più alta e credibile, intorno a 3.500 vittime. Il numero totale non si saprà mai, perché l’esercito si occupò di far scomparire centinaia di cadaveri in fosse comuni scavate in tutta fretta. Del Venezuela che noi nativi amiamo non sarebbe rimasta che una fotografia sbiadita, la natura imponente dei tropici, la posizione geografica privilegiata e il temperamento solare e ottimista delle sue genti.

Quello fu un triste punto e a capo e la conclusione di un capitolo felice ma, purtroppo, non a lieto fine.Facile allora comprendere perché, qualche anno dopo, tutti avrebbero accolto e sostenuto un uomo che, calandosi dal cielo stile Deus ex machina in piena tragedia, si sarebbe presentato come il nuovo Libertador amico del popolo, promettendo di salvare il Paese e le sue sorti.

Le premesse iniziali sarebbero state obiettivamente accattivanti e interessanti e a tutti sembrò un’ottima idea credere nelle sue promesse, senza poter minimamente immaginare che il clima del Caracazo sarebbe, con lui e fino ai nostri giorni diventato una costante quotidiana. Nemmeno cinque mesi dopo salutammo l’isola, le palme, il sole, la nostra casa coloniale circondata di alberi di mango, i fiori, le onde, il mare, le verdi colline, le casette di pescatori color pastello, il profumo del sale, le strade di Porlamar, El Yate, il merengue e il sorriso delle persone e ci trasferimmo a Caracas nel mausoleo (leggi: casa di mia nonna), perchè i miei potessero organizzare e seguire il trasloco e la spedizione dei vari containers. Nell’ottobre dello stesso anno salimmo tutti su un aereo, con al seguito cani, gatti, scatoloni e degli enormi bauli (e, lo scoprimmo qualche mese dopo, anche una famigliola di scorpioni), pronti a diventare in pianta stabile cittadini italiani.

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