La città che dorme sul fiume

di Francesca

 

Grazie come sempre al mio amico Cono Carrano per i suoi racconti e per mettere a disposizione di questo blog i suoi ricordi.

La città che dorme sul fiume

Alla fine del 2010, decidemmo di tornare in Venezuela per 15 giorni mia madre, il suo compagno ed io, avendo come basi Caracas nel Distrito Capital e Punto Fijo nella penisola di Paraguaná, la prima il mio luogo di nascita, la seconda quello di mia madre.
Avremmo gironzolato senza strapazzarci troppo, nella nostra amata, amatissima terra.

Maria, mia mamma, e il suo compagno Antonio, avevano più di una volta espresso il desiderio di vedere la foresta e mi raccontarono più volte del documentario che avevano visto in tv e di cui erano rimasti completamente rapiti ed affascinati.

Neanche a dirlo, il documentario era ambientato nella giungla venezuelana, e ogni volta che tornai a far loro visita prima della partenza, mi raccontarono dei luoghi che avevano ‘visitato’ con gli occhi e delle facce degli indios che avevano conosciuto attraverso la televisione.

Questa volta non ci sarebbe stato alcuno schermo a separarli da quel mondo, quel mondo lussureggiante e incontaminato che si ‘nascondeva’ nel cuore di quella terra.

Arrivammo a Ciudad Bolivar, da lì sarebbe cominciato il nostro ‘mini tour Canaima’, uno dei più belli ed importanti parchi naturali, non solo del Venezuela.
Ciudad Bolivar ci accolse al tramonto.

All’epoca in cui visse il padre della patria Simon Bolivar, questa piccola città si chiamava Angostura (Strettezza), perché situata in uno dei luoghi dove il superbo Orinoco, il fiume più lungo del paese, è più angusto.

Angostura è stata la protagonista di varie battaglie ed una delle prime zone del paese ad essere liberata dalla dominazione spagnola durante la guerra d’indipendenza. Fu nominata nel 1818 dal Libertador, capitale provvisoria della Repubblica e lì il ‘Liberatore’ vi pronunciò il famoso “discorso d’Angostura” il 15 febbraio 1919, nel quale rinunciava ai poteri assoluti che gli erano stati concessi e dava le direttive di come doveva essere organizzata la nascente nuova Repubblica.

A Ciudad Bolivar ci arrivammo al tramonto e penso che fu quella luce a rendere la città che dorme sull’Orinoco più affascinante.
L’aria era polverosa, il colore del fiume era quello del caffè, gli ultimi raggi del giorno regalavano luce calda, quella stessa luce calda in cui l’occhio mette a fuoco tutte le declinazioni e sfumature del bianco, del giallo, del marrone, ora era tutto nitido, ora era tutto sfocato.
Il dorso della mano era teso verso il cielo e sopra gli occhi, il vento era tiepido e lieve, le finestre lunghe, strette e in ferro battuto.
Le balaustre erano di cemento bianco, i mattoni erano a vista, le case e i loro muri avevano colori sgargianti, quasi accecanti, più del sole diretto puntato sugli occhi. I muri erano di un bianco candido, spazi restaurati, spazi diroccati, ricchezza e povertà, il chiasso della messa delle 18:00, la volgare e chiassosa modernità mescolata ai resti coloniali del tempo che fu, della vita che fu, delle battaglie che furono.

La posada dove alloggiammo, Posada Angostura, era un luogo incantevole, ci ritrovammo catapultati in un sogno coloniale, un trionfo tropicale di mattonelle decorate dal giallo all’azzurro, colonne altissime in ferro blu scuro a sorreggere balconi interni ricoperti di piante verdi dalle foglie pendenti e scenografiche, fontane di foggia spagnola e specchi d’acqua, muri rosso mattone, lumi in ferro nero, gabbie in legno, cesti di vimine e anfore artigianali in terracotta disseminati ovunque, amache, sedie di legno scuro e pesante.

Dalla deliziosa piccola terrazza della mia stanza era possibile osservare le case più alte e le case più basse, ero incastrato nel centro della città, in un caleidoscopico labirinto colorato, potevo scorgere la vita dentro alcune finestre, in altre terrazze, in altri balconi. Ne ho immaginato le storie, le vite, i destini, ho sentito parlare sconosciuti dalle loro stanze, ho sentito gli odori delle cucine altrui, ho ascoltato la musica cantata da bocche estranee.

Vedevo i banani, i platani e le palme, vedevo il fiume.
Tutti i fotogrammi della città impressi nella mia memoria sembrano cartoline lontane da un mondo sbiadito e giallognolo, nostalgico e decadente.

Camminammo in silenzio quel pomeriggio mia madre ed io, lei poco più avanti ed io poco più indietro, la passeggiata costeggiava il margine del fiume e percorre da punta a punta la città.

Dalla nostra sponda guardavamo l’altra sponda, la ‘Pietra del Mezzo’ che segna il livello dell’acqua, il paese di Soledad, il lungo ponte e il sole che calava, toccava l’acqua sospeso tra le arcate e le funi di ferro del ponte di Angostura.

Camminammo in silenzio io e mia madre, sospesi e senza pensieri, abbracciati dalla luce, accarezzati dal vento e cullati dall’acqua, ripresi in grembo dalla nostra terra.

Lasciammo il centro di Ciudad Bolivar all’alba, la macchina ci portava all’aeroporto quella mattina, poi, un piccolo aereo ci avrebbe portato alle porte della foresta, nel polmone del mondo, lì dove tutto è verde, dove tutto è acqua, dove il tutto è tutto e tu non sei niente.

Cono Carrano

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