Di Luna e di Vento

di Cono

Di luna e di vento

Mi incammino per la stessa strada da mesi, lo stesso lungo e ampio viale tipico della grande città mi vede percorrere le stesse piazze, aspettare agli stessi semafori, avanzare tra la stessa folla; il mio andamento è veloce, il mio passo è sicuro, tanto da farmi apparire come lo sconosciuto dall’aria affidabile a cui poter chiedere qualunque informazione.
La nebbia avvolge con il suo manto bianco la città, la rende incolore ed io avanzo seguendo il profumo di quella scia che mi trascina con l’olfatto fino alla fonte, i miei occhi sono attratti dagli unici colori che spezzano e contrastano quest’atmosfera lunare che cammino: la sua barba è lunga, ondulata, il colore rosso carota ne incornicia i tratti, un viso ovale e spigoloso dall’incarnato perlaceo, le sue mani sono nere, lunghe mani dalle dita affusolate, mani tinte dall’onore del lavoro.
La brace arde, ne sento il caratteristico scoppiettio, il profumo di caldarroste riempie la via.
“Dentro ad ogni guscio si nasconde un sogno, alle volte questo sogno rimane nascosto per anni. Poi può avverarsi come per magia e da quel momento ogni cosa che succeda dopo, ogni dolore che possa capitare non sarà mai tale da cancellare quel sogno”, così lessi qualche tempo fa e da allora mi piace crederlo.
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Agguanto il sacchetto di carta bianca, porto a casa 20 castagne fumanti, 20 possibili sogni e lo sguardo profondo ma sconosciuto degli occhi più blu che abbia mai visto prima, le dita e i palmi delle mie mani si scaldano per un istante, infilato il sacchetto nel mio zaino allungo e affretto il passo, riprendo il mio cammino verso la stazione, devo prendere il treno, il mio treno per casa.
Vedo scorrere momenti preziosi della mia esistenza, così come gli occhi scorrono veloci i paesaggi attraverso il vetro dei finestrini di questo treno.
Ad un tratto smetto di sentire l’uomo che con la testa chinata in avanti russa non troppo forte di fianco a me, distolgo l’attenzione dai titoli del giornale che legge il signore distinto che mi siede di fronte, i miei piedi sembrano non toccare più il pavimento, le mie mani non si raffreddano più appoggiate al tavolino, e questo treno mi conduce verso un nuovo viaggio, dove non ci sono controllori né fermate, abbonamenti da sottoscrivere o biglietti da pagare, e dove sono io a decidere in quali città fermarmi, senza documenti, senza chiavi, senza bagagli.
E mi ritrovo in quella casa, dove la morte era venuta a bussare, in quella cucina, davanti a quel divano, dove quell’ospite sgradito rimase il tempo necessario al compimento della sua missione; la morte era venuta a portare via mio padre, era venuta a spogliarlo dal vigore del suo corpo di uomo, a strappargli dalla pelle la sua energia, a distoglierlo da quella bramosa voglia di vivere che si portava addosso da sempre.
Ogni qualvolta ricordo quei giorni, e mi capita spesso, come se fossi in un teatro vuoto, abbandonato in mezzo al nulla, rivivo la stessa scena, rivedo la stessa immagine, la stessa atmosfera rarefatta mi accerchia, mi avvolge, lo stesso freddo mi raggela il sangue e le carni, sono fermo nel tempo, intrappolato nello spazio e sento ancora lo stesso silenzio, quello che soffoca, che asfissia, che assorda, che stringe e vedo la stessa luce, quella luce gialla, fioca, tremante, flebile. Che suono ha il dolore? Che colore ha il dolore? Che odore ha il dolore? Tutte le mie risposte sono lì, dentro a quella stanza.
E lì c’è mia madre, sempre, su quella poltrona che veglia il suo amato, notte e giorno, giorno e notte, giorni interi, notti intere, con la schiena rotta e il cuore in frantumi, a piangere lacrime amare, le più amare, tanto amare e dolorose da vederne i solchi sul suo viso, tanto amare e dolorose da veder scomparire quegli occhi, vitrei, assenti, persi in una terra arida, dal vento gelido e i rami secchi, persi nella terra del dolore sconfinato. Il destino a volte stringe strane alleanze, assegna compiti ingrati, e diventa il più freddo, il più calcolatore, il più spietato, il più crudele degli aguzzini.
Il ticchettio dell’orologio scandiva i secondi, quel maledetto ticchettio scandiva i minuti, le ore, intere settimane, interi mesi, interi anni sembravano svanire, un’intera vita sembrava allontanarsi, come una nave che si perde tra le nebbie e la notte nell’orizzonte nero dell’oceano. E non c’è tempo, non c’è più tempo.
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Si può chiedere a chi ama di consegnare alla morte l’amato? Lo si può chiedere? Quale compito è così doloroso, così sadico, così straziante? Lo si può chiedere?
Il mio corpo è stanco, la mia schiena è dolorante, i miei piedi sentono il peso della giornata, distendo gli arti, stiro prima le gambe e poi le braccia facendo ruotare i polsi in senso orario e antiorario, passo la mano sinistra sulla fronte e mi strofino gli occhi, le palpebre si socchiudono, la vista si appanna, assecondo l’assordante silenzio che mi isola dal solito frastuono di motori, di partenze, di fermate, di passeggeri che scendono e che salgono, vorrei dormire, abbandonarmi, vorrei vagare, vagabondare, viaggiare, vorrei sognare. Avanti e indietro nel tempo, ancora, ancora una volta, avanti e indietro nel tempo, vorrei viaggiare, vorrei sognare.
Cartelli, cavi elettrici, distese verdi, campi coltivati, balle di fieno, alberi, arbusti, filo spinato, case, palazzi, frazioni abitate, balconi fioriti, balconi spogli, macchine, autobus, camion, parcheggi, stazioni, treni, treni che sfiorano, che scuotono, che se ne vanno, che si allontanano, che spariscono nello stesso nulla dal quale sono arrivati. Primavera, estate, autunno, inverno.
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Di fianco a me sento una donna parlare, spiega al ragazzo che siede accanto a lei, con un inconfondibile accento romagnolo, come evitare il controllore, gli dice che se riescono ad arrivare a Bologna eludendo la verifica del biglietto, è fatta!
Lei avrà ad occhio e croce 55 anni, capelli neri corvini raccolti su un viso dalla pelle bianca, trucco ‘sbafato’, occhio spiritato e risata fracassona, indossa dei fuseaux maculati e un top scollato di pizzo bianco.
Lei dice che lui gli sta togliendo un sacco di problemi di dosso, che si sente meno pesante, molto più leggera, lei ride e applaude, lo bacia.
Lui è minuto, più giovane di lei di vent’anni, dalla pelle olivastra, l’accento straniero, indossa un cinque tasche chiaro e una felpa scura.
Lui parla poco, sorride e lei non smette di parlare, gli dice di spendere pochi soldi, di pensare che ha una casa, una donna e da mangiare, che domenica andranno a Rimini al mare e che anche con pochi soldi si può fare tutto, dice che ha dato tutto per gli altri, che ha dato la vita, l’anima e che per stare dietro agli altri si è persa. Dice al ragazzo di non dirle mai più che è fragile, perché al contrario lei è una donna fortissima e che è tornata in piedi.
‘Campari o non Campari più’ ripetono mentre si guardano negli occhi, ridono e si baciano ancora, ancora e ancora. Lei gli chiede: ‘ma ti mancano i tuoi posti? Ma stai bene qui? Dov’è che stai bene?’
È curioso come quegli attimi regalati all’improvviso da perfetti sconosciuti, ti tocchino così profondamente da tornarti in mente più spesso di quanto avresti mai creduto, più spesso dei tuoi stessi ricordi.
Come quella sera, quella sera d’estate spensierata e ventosa di un paio d’anni fa, quando percorrevo con la mia auto la strada statale che da Rimini mi portava a Riccione, ricordo di aver distolto per un attimo gli occhi dalla strada, un attimo che ora mi sembra infinito, avevo abbassato i finestrini della macchina, alzato la musica dell’autoradio e posato gli occhi su quella pompa di benzina che avrò visto infinite volte facendo e rifacendo negli anni lo stesso percorso, e vidi quella donna, che poi capii esercitasse il mestiere più antico del mondo, la vidi alzare le braccia e muoverle, agitarle, rotearle simulando l’azione del volo, le maniche a calice della sua camicia di velo volteggiavano nell’aria, volteggiavano nel vento di quella notte, assieme ai suoi lunghi e ondulati capelli biondi, assieme a chissà quali desideri, a quali sogni.
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Vorrei vagare ancora, vagabondare ancora, viaggiare ancora, vorrei sognare ancora. Avanti e indietro nel tempo, ancora, ancora una volta, avanti e indietro nel tempo, vorrei viaggiare ancora, vorrei sognare ancora.
Di luna e di vento.
Cono Carrano

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