Capitolo 2: in Cina alla ricerca del coronavirus

di Filippo

Parlando di virus

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Dove eravamo rimasti…
Il coronavirus è sceso dalle ali di un pipistrello e, dopo essersi infilato le scarpe giuste, ha iniziato la sua corsa attorno al mondo.

Ci eravamo lasciati così la settimana scorsa (leggi l’articolo precedente sul coronavirus ) e proprio pochi giorni fa l’autorevole rivista Nature Medicine ha raccolto tutte le evidenze scientifiche sull’origine naturale di SARS-CoV-2 (questo il nome del coronavirus responsabile dell’attuale pandemia).

Il codice genetico del virus è stato analizzato dagli scienziati di tutto il mondo e i risultati dimostrano che non è stato creato artificialmente in laboratorio.

La sua capacità di infettare l’uomo è invece il risultato di un adattamento specifico alle “scarpe” umane.

Nella bibliografia in calce all’articolo troverete il riferimento a questa e tutte le altre fonti che ho utilizzato in questo articolo.

In Cina diciassette anni fa

Prima di continuare a raccontarvi di questo virus, vorrei portarvi indietro di qualche anno, quando uno suo stretto parente fece tremare il mondo.

Era il novembre del 2002 e nella provincia cinese del Guandong furono identificati dei casi di sindrome respiratoria atipica di origine sconosciuta.

Ci vollero ben cinque mesi prima di identificarne la causa: solo a metà aprile del 2003, infatti, venne scoperto che uno stretto parente dell’attuale coronavirus era il responsabile di una grave malattia respiratoria (in inglese SARS), molto più pericolosa dell’attuale, che uccideva 3 persone su 10.

Fu il primo coronavirus a spaventare il mondo.

Fortunatamente quell’epidemia fu contenuta e non si trasformò mai in una pandemia (cioè una epidemia a diffusione globale).

Ciò che però accadde di diverso diciassette anni fa rispetto ad oggi fu il ritardo nelle informazioni da parte delle autorità cinesi.

È un dato di fatto che sebbene il primo paziente venisse ricoverato a novembre, la Cina notificò all’Organizzazione Mondiale della Sanità la presenza di un’epidemia solo 3 mesi dopo.

E questo fu determinante nel rallentare le possibilità della comunità scientifica di studiare la malattia, comprenderne le cause attivare una risposta efficace.

In Cina oggi

Sono in molti a essersi chiesti se anche questa volta, come in passato, la Cina abbia contribuito a un ritardo nelle notifiche dei casi di COVID-19 (questo il nome della malattia causata dal coronavirus SARS-Cov-2 che sta circolando oggi).

Anzi, sono circolate vere e proprie accuse di insabbiamento dell’inizio dell’epidemia.

Ebbene, ancora una volta la rivista Nature viene in nostro soccorso e spiega come le cose siano andate in realtà in maniera molto diversa.

A seguito del primo caso ricoverato nella provincia dell’Hubei, sono trascorse solo tre settimane prima che la Cina informasse l’OMS di un aumento di polmoniti atipiche.

Altre tre settimane sono state necessarie prima per isolare il virus e studiare il suo materiale genetico, poi per preparare un test diagnostico che ha permesso di lanciare la più estesa campagna di contenimento di una malattia mai realizzata nel mondo moderno.

Una rete di sorveglianza capillare

È stato proprio grazie alle minacce del passato che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha implementato un sistema di sorveglianza delle infezioni respiratorie che si basa su una rete di medici di medicina generale.

I medici riportano alle agenzie sanitarie internazionali tutti i casi di malattia che mostrano dei cosiddetti “sintomi sentinella” comparsi nell’arco di dieci giorni dalla notifica, cioè febbre sopra i 38°C, tosse e necessità o meno di ricovero ospedaliero.

È grazie a questo sistema che ogni anno è possibile valutare l’impatto dell’influenza sulla popolazione mondiale.

Ed è stato proprio questo sistema che ha reso possibile l’identificazione precoce di casi sospetti, poi risultati di COVID-19.

Svelare l’epidemia di un virus sconosciuto

Ora, se ritenete sia così facile individuare una nuova malattia respiratoria, facciamo finta per un momento di essere in Cina.

Un paese con quasi un miliardo e mezzo di abitanti e megalopoli colossali: pensate che la regione dell’Hubei ha gli stessi abitanti di tutta l’Italia e la città di Whuan quelli di tutta la Lombardia, circa undici milioni!

E facciamo finta sia dicembre, quando gran parte della popolazione soffre di malattie respiratorie causate dall’influenza e da molti altri virus, tra cui anche i coronavirus che causano il comune raffreddore.

Gli epidemiologi e i virologi sono come degli investigatori a caccia di indizi.

Come distinguere una polmonite da COVID-19 da una delle tante altre che si verificano di inverno?

Finché il numero di queste polmoniti non raggiunge livelli “sospetti” è di fatto impossibile.

Si sarebbe potuto fare di più?

In presenza di un numero di casi di polmonite superiore alla norma, gli specialisti si affidano dunque ai test molecolari per identificarne la causa.

Questi test sono estremamente specifici e possono identificare a colpo sicuro la presenza di un virus in un campione perché rilevano il materiale genetico di quel virus, e solo di quello.

Tuttavia hanno anche un grosso limite: sono in grado di identificare ciò che si conosce già, ma non ciò che è sconosciuto.

È infatti necessario aver caratterizzato in precedenza il materiale genetico del virus, per poterlo identificare in maniera univoca attraverso un test.

Questo processo richiede che il virus venga isolato, e per riuscirci sono necessarie alcune settimane.

Come abbiamo visto all’inizio, ne sono trascorse solo tre dall’individuazione dei casi di polmonite tra miliardi di persone e lo sviluppo di un test diagnostico.

In fin dei conti, la velocità di risposta nei confronti di SARS-CoV-2 è stata davvero efficiente, non credete?

Bibliografia

  1. https://www.nature.com/articles/s41591-020-0820-9
  2. https://www.nature.com/articles/d41586-020-00758-2
  3. https://www.who.int/publications-detail/report-of-the-who-china-joint-mission-on-coronavirus-disease-2019-(covid-19)

 

FOTO COPERTINA: Photo Zhang Kaiyv 

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