Capitolo 4 – Coronavirus: un test ci salverà?

di Filippo

Mai farsi cogliere impreparati nei confronti di un virus

La partita che giochiamo tutti i giorni nei confronti del coronavirus è una corsa contro il tempo: non dobbiamo farci trovare impreparati, ma stare sempre un passo avanti il nostro avversario.

A maggior ragione quando ci troviamo di fronte un rivale sconosciuto come il coronavirus, la sfida può sembrare impari perché non sempre siamo in grado di prevedere come evolverà l’epidemia e anche i migliori modelli possono rivelarsi inesatti.

Tuttavia, non dobbiamo sottovalutare un aspetto importante: noi siamo una specie dotata di intelligenza (questo è vero almeno per la maggior parte di noi!), mentre i virus non lo sono.

La prima mossa è comprendere la portata dell’emergenza che abbiamo di fronte

Capire quante persone sono ammalate è importante sia per poterle curare (o assisterle al meglio, in assenza di farmaci specifici), sia per proteggere chi ancora non è infetto attuando misure di isolamento idonee. Questa informazione ci viene fornita dai test diagnostici. Il test per la diagnosi del coronavirus è il famoso “tampone” di cui abbiamo sentito tanto parlare negli ultimi mesi: si tratta di una procedura specifica che sfrutta la tecnica della reazione a catena della polimerasi (PCR) e permette di rivelare la presenza del materiale genetico del virus in una persona infetta, anche quando questo è in quantità molto basse.

Un tampone positivo indica che la persona in quel momento è infetta

Per individuare gli infetti è estremamente importante effettuare il tampone alle persone sintomatiche, soprattutto nelle fasi iniziali dell’epidemia. Inoltre, oggi sappiamo che si può risultare positivi al tampone da qualche giorno prima che si manifestino i sintomi fino a una settimana dopo la loro scomparsa. Per questo motivo, una strategia utile per anticipare il virus è l’isolamento preventivo di chi ha avuto contatti con una persona risultata positiva, accompagnato da un monitoraggio stretto attraverso il tampone. Questa strategia, se attuata tempestivamente, è molto utile per contenere i primi focolai e il diffondersi dell’infezione.

I dati dei tamponi sono come una fotografia istantanea dell’epidemia

Da un lato, continuare a effettuare tamponi a più persone possibili è utile per tenere sotto controllo la diffusione del virus. Dall’altro, per comprendere l’evoluzione dell’epidemia occorrerebbero tante istantanee successive. Tuttavia, per motivi logistici e di costi è impossibile testare a tappeto e ripetutamente tutta la popolazione. Quindi, affinché i dati epidemiologici siano realistici, occorrerebbe stabilire dei criteri univoci e omogenei su tutto il territorio nazionale con cui selezionare le persone a cui fare il tampone. Purtroppo, in questa emergenza abbiamo assistito al cambiamento dei criteri in corso d’opera e, a volte, alla loro inosservanza. Questo rende sicuramente ancora oggi difficile comprendere la reale diffusione di Covid-19 in Italia e in Europa.

Alla ricerca degli anticorpi per capire chi è guarito

Una volta che un virus è in circolazione già da qualche tempo, le istantanee prodotte dai risultati dei tamponi non bastano più. Una persona senza sintomi potrebbe essersi infatti ammalata in precedenza ed essere guarita. In questo caso il suo tampone risulterebbe comunque negativo. Ecco perché nella seconda fase dell’epidemia è importante anche affidarsi ai test sierologici. Questi test misurano gli anticorpi che il nostro organismo produce naturalmente in risposta a una infezione e che si trovano liberi nel sangue. L’immagine che ci forniscono questi test viene detta “sieroprevalenza”. A mano a mano che aumentano i guariti, aumenterà anche il numero di persone che avrà sviluppato gli anticorpi, quindi aumenterà anche la sieroprevalenza. Questa informazione ci permette di guardare anche nel passato e individuare quindi chi si è ammalato, ma è “sfuggito” alla diagnosi tramite tampone.

La patente di immunità: un guarito è per sempre?

In queste ultime settimane abbiamo sentito spesso parlare di “patente di immunità” per chi è guarito ed è positivo al test sierologico, cioè ha anticorpi rilevabili attraverso il test. Questo concetto si basa sul principio, valido per la maggioranza delle malattie infettive, secondo cui gli anticorpi forniscono una immunità che impedisce la successiva re-infezione da parte dello stesso virus. Ma è così anche per Sars-Cov-2? Purtroppo, i dati accumulati fino ad oggi non sono in grado di dare una risposta definitiva a questa domanda. Questo infatti è un virus nuovo ed è in circolazione da troppo poco tempo.

 

I quesiti ancora aperti sono molti

Guardando al passato, l’epidemia da coronavirus della SARS ha stimolato nell’organismo delle persone guarite la produzione di anticorpi che sono rimasti rilevabili per circa tre anni, come mostrato da uno studio del 2007 .

In questa finestra temporale, gli individui con anticorpi sono rimasti potenzialmente immuni alla SARS, anche se non lo sappiamo con certezza perché il virus è sparito dalla circolazione troppo in fretta nel 2003 per poter raccogliere dati a riguardo.

Inoltre, chi nel corso dell’attuale epidemia ha avuto una infezione asintomatica o con sintomi leggeri ha sviluppato un livello di anticorpi sufficientemente elevato per garantirgli l’immunità?

Questa è un’altra domanda senza risposta.

Attenzione quindi a trarre conclusioni affrettate

E’ probabilmente troppo presto immaginare il risultato positivo del test sierologico come un lasciapassare senza restrizioni.

Il dato di sieroprevalenza ci restituirà una immagine sempre più precisa di quanto il virus abbia circolato nella popolazione; tuttavia questa informazione non dovrà farci abbassare la guardia a lockdown terminato, e dimenticare le precauzioni di igiene e distanziamento che abbiamo osservato finora.

Insomma, è ancora troppo presto per tirare un sospiro di sollievo.

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