Salto Angel, la cascata più alta del mondo e le nostre 48h con Mr Bear

di Francesca

 

Ispirata da un post su Facebook pubblicato qualche tempo fa dal mio amico Cono Carrano, oggi mi è tornato in mente il mio ultimo viaggio in Venezuela.

Sono più di 4 anni che non torno a casa e il dolore è immenso.

L’ultima volte il panorama generale è stato così avvilente che ho giurato a me stessa che non ci sarei tornata fino a quando le cose non sarebbero cambiate e migliorate.

Destino ha voluto che, nel mentre, siano purtroppo soltanto peggiorate e, se già prima non avrei avuto voglia di rivedere i luoghi del mio cuore rovinati, oggi con le bimbe, non ci penso proprio, anche se portarle a conoscere il MIO Venezuela resta e resterà uno dei sogni più grandi.

E lo farò. Lo farò il giorno che restituirò quel sacchettino di sabbia alla spiaggia di Los Roques.

Proprio in occasione di quell’ultimo viaggio, demoralizzati dalla situazione fatiscente di Margarita, della sensazione di pericolo sempre più tangibile e della chiusura di gran parte dei ristoranti e dei locali che negli anni precedenti avevamo sempre frequentato, decidemmo di passare più tempo possibile di quel mese di vacanza altrove, trascorrendo qualche giorno tra Los Roques e Canaima.

“UP”, il lungometraggio animato di cui parlava Cono, è un film d’animazione meraviglioso.

Come scriveva Cono nel suo post: “Pochi o pochissimi sanno, che gran parte del film di animazione della Disney Pixar -UP- vincitore del premio Oscar come miglior film d’animazione nel 2010, nonché mio film d’animazione preferito in assoluto, è basato sui Tepuy venezuelani e che le cascate paradiso, il sogno inseguito dai protagonisti per tutto il film, altro non sono che la cascata del Salto Angel, situata nel parco nazionale Canaima in Venezuela”…”i Tepuy (pronuncia tepuì) sono un tipo di montagna a cima piatta che si trova solo nell’altopiano della Guayana in america del sud, specialmente in Venezuela presso il confine con il Brasile e la Guyana. La parola “tepui” significa “casa degli Dei” nella lingua dei Pemon, gli indigeni che abitano la Gran Sabana. I tepui sono generalmente isolati e non collegati in catene montuose, e l’isolamento ha favorito lo sviluppo di fauna e flora endemica. Alcuni dei tepui più importanti sono Autana, Auyantepui e il monte Roraima. Sono composti da blocchi di arenaria e quarzite del periodo Precambriano. Auyantepui è la sorgente delle cascate di salto Angel”.

Come sempre non posso che condividere le parole di Cono, perchè proviamo sempre emozioni molto simili ed entrambi abbiamo fatto lo stesso pensiero nel ritrovarci di fronte i luoghi magici e da togliere il fiato della nostra terra in un film d’animazione bello come UP.

Quell’anno ci eravamo rivolti all’agenzia viaggi di un caro amico italiano che allora viveva a Porlamar.

Gli avevamo detto di avere voglia di un viaggio all’avventura immersi nella natura, di sorvolare Salto El Angel, conoscere Canaima e la zona del Delta dell’Orinoco. Tuttavia eravamo stati abbastanza chiari nello specificare che, pur non aspettandoci il Four Season di Maui, desiderassimo pernottare in un lodge confortevole.

Le nostre più recenti esperienze tra Kenya e Tanzania ci avevano visti completamente immersi nella natura selvaggia della savana ma pur sempre nel confort totale di lodge dotati di acqua e generatori che venivano azionati all’imbrunire.

Quel giorno di metà agosto eravamo partiti da casa (Porlamar) all’alba ed eravamo arrivati all’aeroporto di Margarita con le prime luci del giorno.

Seduti al piccolo gate affacciato sulla pista d’atterraggio, senza nemmeno aver sostenuto controlli aeroportuali, avevamo notato con sorpresa che gli altri passeggeri che ci avrebbero accompagnati durante quei due giorni di escursione erano quasi tutti tedeschi, al di fuori di Ana e Adam, una simpatica coppia di polacchi con cui siamo tuttora in contatto.

Tra di loro c’era un tedesco strano e ubriaco da fare schifo (non erano nemmeno le 5:00 del mattino) che barcollava tra noi turisti sbiascicando parole in uno spagnolo incomprensibile. Scherzando ci eravamo augurati che non fosse il pilota, ridendo del fatto che come minimo ce lo saremmo ritrovati seduto accanto, con lo stesso terrore con cui di solito scorgevamo le coppie con neonati durante l’imbarco.

Pochi attimi dopo avremmo scoperto non solo che lui sarebbe stata la nostra guida turistica, il nostro punto di riferimento durante le successive 48 ore, ma anche che eravamo finiti per errore nel gruppo sbagliato, nel “tour wild” di turisti all’avventura, per capirci rientravamo in un gruppo di pazzi invasati che avevano fatto di Edward Michael Grylls (noto come Bear Grylls o Mr Bear)il loro idolo e che non stavano più nella pelle all’idea di nutrirsi di termiti, vermi e di camminare nel fango.
I pochi italiani che avrebbero viaggiato con noi in aereo, infatti, una volta atterrati a Canaima sarebbero stati destinati ad altri tour e ad altri lodge.

Molto bene.

A quel punto eravamo ormai seduti a bordo del piccolo aereo, con fumate di condensa che uscivano ritmicamente dai bocchettoni posti lungo il piccolo corridoio, metà dei comandi nella cabina di pilotaggio fermi forse all’85, una lista di passeggeri scritta a mano che mi faceva tanto “Lost” (serie tv) e un pilota pazzo da legare che mi aveva presa in simpatia e che aveva deciso che sarei stata utile come traduttrice per i pochi turisti italiani presenti che avrebbero volato con noi fino a Canaima.

Così che mi ritrovai accanto a lui a tradurre quello che diceva, con una mappa tra le mani e lo stomaco in gola per come scendeva basso tra i tepuy, cercando di mantenere la calma e soprattutto di farmi vedere molto sul pezzo rispetto a quanti si facevano il segno della croce e si tenevano ancorati ai braccioli dei sedili (chiaramente cintura di sicurezza esenti).

Sorvolare Salto El Angel, la cascata più alta del mondo fu un’emozione difficile da raccontare.
Questa cascata, alta quasi 1 km si chiama così in memoria del pilota americano Jimmy Angel, che per primo la scoprì.

Atterrati a Canaima avevo ancora con me tutto il mio buon umore e la mia sete di avventura.

Respirai a pieni polmoni davanti alla laguna color brandy, colorazione dovuta all’alto contenuto di tannino nelle acque, un composto presente nelle piante della zona, specie negli alberi di Bonnetia.

Indossammo felici i giubbottini salvagente e attraversammo la laguna a bordo di alcune canoe.

Diventai subito la migliore amica dell’indio che remava, e qualche ora più tardi avrei ringraziato di aver intrapreso questa nuova amicizia.

Mentre chiacchieravamo il piccolo uomo mi indicò la cascata di Salto El Sapo, spiegandomi che poco dopo avremmo potuto camminare dietro alla cortina d’acqua, grazie ad un ansa che si era scavata naturalmente nella roccia.

Mi spiegò che era pratica abituale, ma espresse anche la sua preoccupazione relativamente alla quantità d’acqua in quel periodo eccessiva, come conseguenza delle abbondanti piogge degli ultimi giorni.

Arrivati sulla cima della cascata lo spettacolo che si profilava all’orizzonte fu meraviglioso.
Ad un certo punto, dopo una breve camminata, arrivammo sotto alla cascata, ad un’altezza di circa 50 metri.

Ci trovavamo esattamente dietro all’acqua e in effetti avevamo davanti un percorso scavato nella pietra, delimitato da un lato dalla roccia e dall’altro da una corda piuttosto logora a cui attaccarsi.

Ci spiegarono di toglierci le scarpe e di restare tutti con le calze, perchè le rocce, erose dall’acqua e ricoperte di muschio, sarebbero risultate estremamente scivolose sia a piedi nudi che con su le scarpe.

Credo di essere una persona abbastanza coraggiosa e sono una che tutto sommato se c’è da ballare balla.

Eppure ricordo con vero terrore i minuti che seguirono.
Appena intrapreso il percorso tutto sembrava molto carino, una specie di passeggiatina rinfrescante, un metro buono di ampiezza dove camminare, acqua tutto sommato distante, ogni tanto uno scroscio nemmeno troppo violento di acqua, pavimentazione non troppo scivolosa.

Ero felice, la sensazione di trovarmi nel pieno della cascata era davvero emozionante.
Due minuti e il panorama cambiò del tutto.

La nostra guida si mostrò persino un po’ preoccupata, ci disse di non fermarci per nulla al mondo e di proseguire, di tenerci forte alla corda e di respirare prima degli scrosci d’acqua più violenti.

Camminavamo tutti in fila indiana, la strada si faceva mano a mano più stretta, l’acqua scendeva così violentemente da spingerci e sbatterci contro la roccia, diverse persone iniziarono a lamentarsi e ad avere attacchi di panico e io per prima iniziai ad avere veri e propri momenti di apnea e di terrore.

La guida ci rassicurava dicendo di andare avanti, di affrontare gli ultimi metri ma i metri in verità sembravano non finire mai.
Io, non mi era mai successo, iniziai a piangere. Giuro, mi spaventai a morte.
L’indio con cui avevo fatto amicizia poco prima mi prese per mano e mi costrinse a camminare, io persi di vista Gigi e tutti gli altri e mi paralizzai contro la roccia dicendo di voler restare lì immobile.

Quel rincoglionito della guida ci disse che mancava poco, che appena saremmo arrivati alla fine di quel percorso ci avrebbe fatto risalire la cascata e saremmo tornati indietro percorrendo un cammino differente perchè le piogge erano scese troppo abbondanti e non aveva previsto tutta quell’acqua e quella potenza.
La gente era visibilmente scossa e arrabbiata, molti si lamentarono, soprattutto quando arrivati alla fine si accorse che il percorso alternativo era stato spazzato via dalle acque. Ciò significava che avremmo dovuto ripercorrere a ritroso la strada appena fatta.

Fu la mezz’ora più brutta della mia vita.
Arrivai a destinazione spompata e in lacrime, spaventata come poche volte nella mia vita. E come me diverse altre persone.

Finita questa avventura andammo tutti a pranzo, quindi finito di mangiare, iniziò a diluviare violentemente per qualche minuto, giusto il tempo di salire su un aereo molto più piccolo del precedente, noi, il pilota, la guida alcolizzata e questa volta solo i turisti tedeschi e decollare sotto un mare di acqua.

Atterrati a Maturin fu la volta del viaggio in auto fino a Tucupita, dove ci saremmo poi imbarcati per arrivare finalmente a destinazione.

Il viaggio in macchina fu infinito.
Aria condizionata sotto lo zero, finestrini bloccati e, soprattutto, viaggio ad una velocità costante di 10 km/h perché finimmo in un branco di bovini lungo la sola strada sterrata percorribile.

Alla fine di quest’altra Odissea arrivammo sulla soglia di un altro mondo, sul confine tra lo stato Monagas e il Delta dell’Orinoco, luogo incantato ed immerso nel silenzio, rotto solo di tanto in tanto dal rumore dell’acqua e dal verso di qualche animale.

Salimmo così sulla piroga che finalmente, dopo circa 2 ore di navigazione, ci avrebbe portato al nostro “lodge” (che utopia definirlo così).
Il cielo intanto aveva iniziato a tingersi di arancio e rosa, i tipici colori dei tramonti tropicali.
Il caldo umido si sentiva tutto e dopo una giornata del genere sognavo solo una doccia. Nel posto sbagliato, ma la sognavo.

Stappammo qualche Polar e ci godemmo il panorama, i canali stretti lungo il fiume color cuoio, i tucani e le scimmie a scrutarci dagli alberi, le mangrovie ad accarezzarci ogni lembo di pelle scoperto.

Lungo il nostro percorso guardavamo rapiti le palafitte ai bordi del fiume, bambini piccolissimi immersi nell’acqua, alcuni schivi warao (comunità autoctone) intenti nelle loro faccende quotidiane. Gli indios Waraos (detti anche il popolo dell’acqua) sono il gruppo più importante dell’area, e la loro vita si svolge prevalentemente a contatto con il fiume. Non sono integrati nella società venezuelana e vivono in quelle aree in costruzioni su palafitte, dedicandosi principalmente alla pesca, alla caccia ed all’artigianato.

Nel mentre qualcuno sussurrava: “bellissimo, ma pensa dormirci… impazzirei!”.

…E già!

Quando arrivammo alla struttura che ci avrebbe ospitato quella notte capimmo che quell’accampamento, per quanto molto carino e assolutanente ben integrato nella natura, non aveva nemmeno un punto in comune con i comodi e rassicuranti lodge africani.

Quando ci fu mostrata la nostra stanza ammetto di aver provato un brivido.

Certo non mi aspettavo una stanza dell’hotel Mondrian di Los Angeles, ma non ero affatto preparata all’idea di dormire su un lettino per nani, con una zanzariera praticamente appoggiata e soprattutto senza pareti alcune, se non qualche foglia di palma essiccata dal sole.

Devo però dire che inizialmente la presi bene, riuscii persino a dire che adoravo l’idea di farmi avvolgere e fagocitare del tutto dalla natura.

Quante cazzate si dicono quando la terza Polar (birra) si sente tutta e si scarseggia in lungimiranza.

Da lì a pochi minuti sarebbe calato del tutto il buio. E non immaginatevi un buio cittadino.

Lì di notte è buio davvero e nemmeno la luna o le stelle riescono ad imporsi sulla fitta vegetazione che aggrovigliata ti copre del tutto.

Un gruppo di invasati decise di risalire in canoa e andare a pescare i piraña, tra l’altro a nemmeno 10 metri da dove ci eravamo sciacquati tutti poco prima.

Noi, una coppia polacca e un paio di altri ragazzi scegliemmo di restare, ricoprendoci di un potentissimo e corrosivo anti zanzare del polacco, che ci disse di averlo comprato online e di trattarsi del repellente per insetti usato dal corpo dei Marines.

Ero la sola di quel gruppo a parlare spagnolo.

Il personale del camp, tutto del luogo era molto rilassato e si dondolava serafico accanto a noi sui loro chinchorros (amache).

Ad un tratto ballò tutto. Completamente. Sentimmo il pavimento di legno sotto i nostri piedi oscillare e le panche su cui eravamo seduti sobbalzare.

Nel buio pesto ormai avevamo solo qualche candela accesa e dei famosi generatori africani nemmeno l’ombra.

Mi girai verso un indio e gli chiesi se fosse una cosa comune una scossa di terremoto da quelle parti. Mi rispose che non era mai successo prima.

Molto bene.

I telefoni erano chiaramente isolati e iniziai a pensare alle cose più brutte.
Se lo avevamo avvertito così forte lì chissà cosa poteva essere stato a Caracas, mi dissi, preoccupatissima per mia madre.

In ogni caso non avrei potuto saperlo fino alla sera successiva quindi cercai di placare l’ansia e di non pensare cose brutte.

Ad un certo punto decisi di andare in “camera” a lasciare giù una felpa.
Con me avevo solo un accendino.
Non lo avessi mai fatto!
Con il buio un sacco di animaletti avevano fatto capolino ed erano venuti a curiosare tra le nostre cose.

Trovai la zanzariera e il nostro borsone da viaggio ricoperti di ragni di varie dimensioni e tornai nella zona comune terrorizzata, chiedendomi come cavolo avremmo fatto ad andare a dormire qualche ora dopo.

Piatti e bicchieri di plastica appena sciacquati nelle acque marroncine dell’Orinoco ci vennero riempiti di un mappazzone indecifrabile.

Avvertii di non mangiare carne, mi propinarono uova strapazzate ad ogni pasto, colazione inclusa.

Gli altri mangiarono sempre pollo ma nessuno ci credette realmente.
Era un pollo strano, molto piccolo e con un becco molto particolare.

A volte è meglio non fare domande.

I bicchieri si prendevano direttamente da alcuni rami a cui venivano appesi ad asciugare e prima di usarli era consigliabile guardarci dentro già che i rami erano anche la dimora di alcuni grossi uccelli che vi facevano dentro di tutto.

Fu la notte più difficile della mia vita.

Non tanto per le urla delle scimmie, per quello che ci planò addosso nella notte, per la seconda scossa di terremoto alle 4 del mattino, per l’umidità che mi fece svegliare con i capelli da Jackson 5 e il corpo completamente bagnato di sudore.
Non per il fatto di essermi tenuta la pipì tutta la notte pur di non attraversare la giungla per andare in bagno.
Neanche per i ragni e per la tarantola sul nostro “soffitto” all’altezza del mio viso parcheggiata lì per tutta la notte a farci compagnia o per il pesce saltato sulla nostra palafitta in notturna e il mattino seguente ormai putrefatto accanto a noi.

La luce arrivò verso le 5 del mattino e tutte le bestioline tornarono improvvisamente da dove erano venute.
Con la luce dell’alba finalmente crollai e riuscii a dormire un’oretta.

Dopo quell’ora di sonno mi sentii rinata, pronta ed eccitata all’idea di rivivere una giornata a contatto con la natura alla luce del sole.
Mi azzardai persino a fare una doccia (secchiate di acqua dell’Orinoco).
Feci colazione con un po’ di latte in polvere e acqua (scansando i moscerini e gli insetti morti nella polvere) e un piccolo e simpaticissimo loro real che mi saltellava intorno.

Respirai e mi sentii felice di essere lì e di aver superato incolume quella notte.
La tarantola sul tetto della nostra stanza nel frattempo era scomparsa ma gli indios mi garantirono che, essendo ormai la mascotte di casa, sarebbe tornata dopo il tramonto.

Da lì a poco avremmo fatto, con tanto di stivali di gomma e copertura totale contro le zanzare amazzoniche extra large, un giretto nella selva, dove il pazzo tedesco avrebbe dato prova del suo essere un vero pirla mangiando bacarozzi e termiti in continuazione e io, dopo essermi raccomandata con tutti sulla pericolosità dei punti fangosi, sarei stata recuperata da una specie di sabbia mobile dove ero affondata fino alle ascelle.

Esperienza meravigliosa.
La sera, tornati a Margarita, ci sembrò di vivere nel lusso più completo nonostante la nota scarsità di acqua e luce sull’isola (uno dei regali del governo revolucionario dell’allora presidente Chávez).

Doccia, cena e crollammo prima delle otto di sera, dormendo per oltre 15 ore consecutive.

Lo rifarei? Assolutamente sì!!!

Magari, però, controllando di non essere finita nel gruppo all’avventura di tedeschi e, solo perché avrei voluto almeno dormire più serena, in un posto un pochino più riparato.

In ogni caso è stata un’esperienza magica!

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