14 – Isla Margarita – Parco del Ticino A/R

di Francesca

Si torna in Italia (per un po’).

Mio fratello Luca stava crescendo rapidamente e mio padre sarebbe dovuto rientrare da lì a poco in Italia per motivi di lavoro. Mia madre iniziava a sentirsi stanca delle scomodità e dalla vita spartana imposta dal Paese e cominciava ad averne fin sopra i capelli di lavorare per i suoi genitori. Inoltre mio padre si era fissato con la vita di campagna e già più di trent’anni fa, aveva il grande sogno di prendere dei terreni per destinarli alla coltivazione biologica, cosa tutto sommato ancora rara e poco conosciuta alla fine degli anni ’70.

Decisero così di tornare in Italia e di acquistare una casa nel paesino di Villareale, una frazione del Comune di Cassolnovo, non lontano da Vigevano, in modo tale che la vicinanza a Milano concedesse a mio padre di lavorare e a Luca di andare a scuola in città. Si trasferirono a Milano per qualche mese, in attesa che terminassero i lavori di ristrutturazione della casa appena presa, una villetta di pochi metri quadrati, immersa e risucchiata dagli alberi e dalla vegetazione di oltre 22.000 mq di bosco nel Parco del Ticino.

Mio padre viaggiava spesso in Asia per la Croff, mio fratello andava a scuola, mentre mia madre aveva ripreso a lavoricchiare facendo qualche traduzione professionale, ma sostanzialmente era quasi tutto il giorno sola e l’atmosfera di quella casa e di quel gigantesco parco non la entusiasmavano particolarmente.

La casa nel Parco del Ticino

Comprarono galline, papere, piantarono alberi da frutto, fecero un bell’orto e assunsero dei contadini che potessero occuparsi di mandare avanti tutto quanto. I costi necessari per la coltivazione biologica erano elevati, la vita di campagna faticosa, i contadini si portavano via i frutti migliori e quelli che a loro buon cuore lasciavano venivano spazzolati in pochi giorni dagli uccelli. Inoltre nelle giornate più umide una nebbia fitta e impenetrabile da film horror avvolgeva tutta la casa.

Tra le altre cose mio padre viaggiava moltissimo e un maniaco aveva preso l’abitudine di telefonare a casa con una certa insistenza. Tuttavia non sembra che mia madre fosse rimasta troppo impressionata considerato il modo in cui mi ha raccontato la cosa (con vago accento romanesco): “ma sì, era un maniachetto un po’ sfigato, povera stellina ansimava, si attaccava ogni giorno al telefono, rantolava e io, poraccio, gli mettevo giù”. Ciò nonostante, il maniaco fu la goccia che fece traboccare il vaso in una situazione di per sé non semplicissima. Infine una tremenda piena del Ticino contribuì a convincerla che la loro permanenza lì fosse giunta al termine.

Le acque del fiume, infatti, raggiunsero e allagarono completamente la casa e i miei, messo in salvo mio fratello sul tavolo della cucina, si trovarono in notturna a ripescare dalle acque gli otto cuccioli che Tex e Ulla, i pastori tedeschi di mio padre, avevano avuto pochi giorni prima.

Mia madre, che è ed era una convinta sostenitrice dell’influenza del potere lunare su maree, piene, coltivazioni, raccolti, psiche e corpo umano afferma che le fasi lunari la sballarono del tutto e che, nonostante non fossi stata prevista, feci capolino in lei in quell’autunno del ’79. Così che la piena, il maniaco, la nebbia, il freddo rigido dell’inverno, la vita faticosa e, qualche mese dopo, anche il pancione furono ottimi motivi per riconsiderare il Venezuela.

Carlos lo sciacallo: niente in comune con mia madre

Inoltre quelli erano anni in cui i servizi segreti di mezzo mondo si trovavano alle calcagne di tale Ilich Ramirez Sanchez, detto “Carlos”, conosciuto anche come lo “sciacallo”, considerato per decenni la Primula rossa del terrorismo internazionale. Nato a Caracas nel ’49, figlio di un avvocato comunista che lo aveva chiamato Ilich in onore di Lenin, Carlos aveva firmato il suo primo attentato nel 1973 a Londra, sparando contro il direttore di un grande magazzino ed era stato poi l’autore di vari sanguinosi attentati avvenuti in Europa tra gli anni ’70 e ’80. I più importanti dei quali erano stati il sequestro a Vienna, nel 1975, di 70 persone tra cui 11 ministri del petrolio dei paesi dell’Opec, concluso con tre morti ed un attentato, nel 1982, contro il treno Tolosa-Parigi sul quale avrebbe dovuto trovarsi l’allora sindaco di Parigi, Jacques Chirac.

Sappiamo da una scheda pubblicata da La Repubblica che Carlos sarebbe stato al centro di una rete terroristica internazionale e avrebbe avuto rapporti soprattutto con gruppi oltranzisti palestinesi (il Fronte popolare per la liberazione della Palestina – Fplp) e con gruppi terroristi tedeschi (Magdalena Kopp è stata la sua compagna per 13 anni), più gli anarchici del “Movimento 2 giugno” e le “Cellule rivoluzionarie” (Rz) che la Raf. I suoi rifugi sono soprattutto in Siria e nello Yemen, ma la Kopp ha raccontato che anche la Stasi della Germania Est li ospitava (pur negando che li abbia utilizzati).

Oltre al terrorismo, Carlos negli anni ha coltivato anche la sua romantica immagine di dandy vecchia maniera, affascinato dalle belle donne, gran bevitore, fumatore di sigari di qualità e nottambulo impenitente. Anche dopo il suo arresto ha avuto una love-story con la sua avvocatessa francese. Bene, ora che sapete chi è stato Carlos posso continuare con la surreale storia che avvolge la mia pazza famiglia. Incinta di me, pochi mesi prima di decidere di tornare a vivere sull’isola, mia madre venne segnalata da una denuncia anonima alla Digos, con la quale si sosteneva che, per il solo fatto di essere venezuelana, avesse avuto rapporti diretti con Carlos.

Seguita e pedinata per oltre tre mesi, un giorno venne convocata ed interrogata a lungo proprio dalla Digos. Gli agenti che la ascoltarono provarono per lei, incinta e stravolta dalla situazione, profonda tenerezza, tanto che le spiegarono che la soffiata era arrivata da una persona molto vicina a lei, ancora infastidita dalle dinamiche legate alla separazione e dal fatto che avesse preso e portato via dall’Italia mio fratello.

Non si seppe mai chi fosse effettivamente stato a cercare di metterla nei guai, ma nel dubbio lei fece richiesta al Tribunale dei Minori per ottenere i permessi necessari per riportare mio fratello Gianluca in Venezuela e, una volta appurato che non avesse alcun tipo di contatto con il terrorista Carlos, presentò una denuncia verso ignoti.

Uscita dall’interrogatorio, però, una terribile emorragia con la quale rischiò di perdermi l’avrebbe costretta a una settimana di ricovero ospedaliero. Quando comunicò la sua decisione di tornare a Margarita per continuare la gravidanza e farmi nascere lì, la presero tutti per pazza e nessuno riuscì mai fino in fondo a capire perché una che poteva usufruire di capaci e preparati medici, di ecografi, un’adeguata assistenza sanitaria decidesse di andare a partorire dall’altra parte del mondo, in un paese come il nostro.

Mia madre voleva che nascessi in Venezuela. E così sarebbe stato!

Prima di tutto la vita di campagna l’aveva stremata e, ancora provata dal ricordo della gravidanza piuttosto faticosa avuta con mio fratello, scelse la comodità, consapevole che in Venezuela aiuti e comodità non le sarebbero mancati. Inoltre ci teneva a darmi la cittadinanza venezuelana e con mio fratello Luca, che allora aveva appena cinque anni, tornare a casa le sembrò la scelta più sensata.

Quando aspettavo Giulia e Vittoria ho sognato e desiderato di poter fare la stessa identica cosa. A trattenermi è stato solo il fatto che fossero due e oggi, visto come sono andate le cose, ringrazio il cielo di essere stata prudente e di non aver messo a rischio la loro vita.In ogni caso, decidendo di farmi nascere là, i miei genitori mi hanno fatto il regalo più bello che potessero farmi e non li ringrazierò mai abbastanza per questo dono. A cavallo tra il 1979 e il 1980 Lucio Dalla avrebbe scritto “Futura”, canzone tanto amata dai miei che a lungo rischiai di chiamarmi così, grazie alla strofa “e se è una femmina si chiamerà Futura”.

La grande fortuna fu che anche Battisti piacesse molto ad entrambi così che il primo nome in lizza, se fossi stata femmina, divenne fortunatamente Francesca.Vendettero la casa ad un imprenditore edile di San Donato Milanese, tale Renato Danne, detto Danny, che ribattezzò la casa “Tana del lupo”, come il bunker di Hitler, ed organizzarono un nuovo trasloco a nemmeno tre anni dal precedente.Non avrebbero mai immaginato che, circa otto anni dopo, avrebbero risentito parlare sia di quel Danny, sia di quella casa, in un’inquietante notizia riportata da una delle rare copie del Corriere della Sera che sporadicamente arrivavano sull’isola.

 

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