(opera di Giulio Pisati)
Ottobre 1989, L’’arrivo a Milano
Era l’ottobre del ’49 quando mia nonna arrivò in Venezuela ed era sempre ottobre, ma di 40 anni dopo, quando la mia famiglia ed io arrivammo a Milano per iniziare la nostra nuova vita in Italia. Ricordo ancora il magone con cui atterrai e la sensazione di smarrimento e tristezza che provai lungo il viaggio dall’aeroporto a casa.
Tanto per cambiare la città si presentava grigia e pioveva a dirotto. L’arrivo in aeroporto era stato incredibilmente caotico perché alla fine quello, rispetto ai viaggi precedenti, era stato un vero e proprio trasloco. Avevamo con noi dozzine di grossi bauli di metallo, che mia madre aveva pensato bene di colorare (sempre stata creativa) in base al proprietario del loro contenuto con bombolette spray rosa shocking per me e blu elettrico per mio fratello, per agevolarne lo smaltimento una volta arrivati a Milano. In aeroporto, appena atterrati, saremmo stati messi subito sotto torchio dalla dogana (strano! sembravamo appena sbarcati da Tirana), anche perché il fatto che Carlotta, il nostro barboncino, fosse in pieno calore, venne scambiato come un abile tentativo per distrarre i pastori tedeschi dei poliziotti. Oltre a Carlotta e ai bauli viaggiavamo leggeri: in pieno stile “La mia famiglia e altri animali” di Durrel, c’erano il nostro cane lupo Axel e Lucia, Federico e Margarita, i nostri tre gatti criolli trovati nel corso degli anni sull’isola. Nonostante ci avessi provato con tremendi pianti, i miei genitori non avevano accettato di trasferire anche Pedro Gonzales e Maria Guevara, i nostri due loro real (pappagalli) e la nostra tartaruga Porsche.
In merito ai due volatili, con qualche anno ed un pò di cinismo in più dalla mia, posso dire che erano tremendamente antipatici: non dicevano una parola, nemmeno quelle tipicamente da pappagallo come “Hola!”,”Adios”,”loreto!”- fino a quando il telefono di casa squillava. Allora lì sì che si scatenava l’inferno e diventavano improvvisamente logorroici. Comunque, tornando a quel tremendo pomeriggio in aeroporto, ricordo di aver passato ore infinite con mio fratello riversa sui bauli ad aspettare i nostri genitori e di aver giurato lì che da Milano, prima o poi, me ne sarei andata. Erano anni in cui il Sud America veniva guardato con grande sospetto.
Non si sapeva molto e non si faceva troppa distinzione tra Venezuela, Argentina, Colombia e Brasile. Sempre di “El Dorado” e di America Latina si trattava. Per non turbare del tutto le nostre abitudini alimentari (oltre alle nostre giovani vite), mia madre aveva pensato bene di mettere in valigia ogni sorta di bene alimentare, spaziando dai preparati per pancakes, ai litri di sciroppo d’acero, dai pacchi di harina pan (farina!), allora introvabili in Italia ad una piantagione di manghi e platani (in quegli anni si poteva ancora fare). Quella fu assolutamente una mossa poco furba soprattutto per i preparati per pancakes e le confezioni di harina pan, entrambi sotto forma di polveri bianche. Inutile dirvi che rimasero tutti-tutti in Dogana e grazie a questa genialata noi finimmo sotto interrogatorio per ore. La nostra casa, che i miei avevano affittato ad una famiglia di inglesi, si sarebbe liberata solo qualche mese dopo, così che per un po’ andammo a stare in un grazioso condominio in Via Boeri immerso nel verde. Vi arrivammo stremati e con il buio.
Molto stanchi e decisamente alleggeriti da quanto i doganieri ci avevano trattenuto. I primi mesi trascorsero tra mille difficoltà. Pur avendo sempre parlato italiano con la mia famiglia facevo moltissima confusione con le parole ed i modi di dire e mi esprimevo in “itagnolo”, una lingua tutta mia.
Avendo fino ad allora frequentato in modo saltuario e confuso le scuole in Venezuela non fu affatto semplice cambiare Paese, scuola e lingua, oltretutto dovendo i miei genitori dimostrare una certa continuità scolastica (non vera) avuta fino ad allora. Poi, finalmente, arrivò il momento di tornare ad abitare nella nostra meravigliosa casa di Via Frescobaldi al 4.
Ero troppo piccola per ricordare una Milano fino ad allora vista a singhiozzo in uno dei 3000 traslochi degli anni precedenti, ma riconobbi istantaneamente lo svincolo su Via Porpora, la cartoleria che mi teneva via le sorpresine del Mulino Bianco e la macelleria del Signor Perla, dall’altra parte della strada.
La cancellata di metallo verde della villa era completamente ricoperta di edera ed il pino marittimo -c’è ancora, oggi è altissimo e che io ricordi è il solo che mi sia mai capitato di vedere a Milano. Sollevando un po’ lo sguardo, verso il terrazzino di quella che era la stanza di mio fratello Gianluca, avevo notato i rami contorti del glicine ormai spoglio, ricordando di averlo visto rigoglioso e in fiore l’ultima volta. Non ero per niente felice di essere a Milano in via definitiva, ma ero felice di poter tornare in quella casa che amavo tanto. Al momento di entrarci, però, i miei si trovarono di fronte uno spettacolo alquanto deprimente.
Gli inglesi che vi avevano abitato avevano probabilmente camminato con scarpe da golf e tacco 12cm sul parquet che ora appariva un green, nonostante fosse di ulivo, e quindi tra i più duri e resistenti in circolazione. Nonostante le mille raccomandazioni di potare periodicamente il glicine gli affittuari non avevano esaudito le richieste di mia madre così che alcuni punti del tetto risultavano completamente scoperchiati.
I bidet, evidentemente incompresi, erano diventati verde smeraldino, completamente rivestiti internamente di muschio per l’inutilizzo e la mancanza di pulizia chiaramente prolungati. Pochi mesi dopo, quando mia madre riuscì finalmente a dedicarsi all’apertura degli ultimi scatoloni e dei bauli, vide la luce una simpatica famiglia di scorpioni, che aveva probabilmente nidificato prima di lasciare Margarita e viaggiato con noi restando al calduccio in un baule fino alla primavera e alla schiusura delle uova. Scorpioni a parte i danni più grandi furono quelli causati dagli inglesi.Così che i miei dovettero chiamare un’ impresa di pulizie e prevedere piccole ristrutturazioni qui e là. Alla fine, però, riuscimmo a riavere la nostra casa e una vita civilizzata.