365 giorni di Giulia e Vittoria

di Francesca

 

Un anno!

Oggi Giulia e Vittoria compiono un anno!

Per alcuni versi il tempo è volato e questi mesi sono trascorsi davvero velocemente.

Per altri la fatica e i duemila pensieri in piú lo fanno sembrare un’eternitá.

Ne sono cambiate di cose da quel giorno di inizio ottobre, ma soprattutto sono io ad essere cambiata nel profondo.

Ho riflettuto moltissimo su quanto un figlio ti cambi la vita e tiri fuori moltissimi lati di te che non credevi nemmeno esistessero.

Intanto trovo che sia giá buono che io sia rimasta a casa e non mi trovi, abbronzata e con le treccine, a preparare daiquiri a Margarita.

Oggi ho ricostruito un pochino questi ultimi mesi, ripercorrendoli sin dall’inizio.

Ho ripensato al mio parto “a sorpresa”, e sì che quella sera stavamo andando al compleanno del nostro nipotino Tommaso quando ho sentito improvvisamente, senza alcun sintomo, di dover fare un salto in Mangiagalli.

Mi è venuta in mente la sala operatoria due ore dopo, io che mi scusavo con tutti per non aver fatto la ceretta, urlavo di avere un compleanno da festeggiare e le dolcissime parole dell’anestesista (“questa va abbattuta”) perchè non stavo ferma un secondo.

Poi mi sono venuti in mente a singhiozzo gli attimi immediatamente successivi.

Le testine delle nane avvolte in un lenzuolino una accanto all’altra a cui ho dato un bacio frettoloso prima che le portassero via, mio marito commosso in corridoio, la mia amica Marion abusivissima, praticamente in sala operatoria, subito dopo aver saputo che erano nate, grazie a mio fratello e al suo discretissimo e intimo benvenuto alle bimbe su Facebook (stessa modalità con cui aveva dato l’annuncio della mia gravidanza mesi prima).

Poi ho ricordato la prima volta in cui le ho viste in foto, sul cellulare di Gigi (che continuava a confonderle tra loro, quindi non sapevo chi fosse chi) e mio fratello arrivato in ospedale tre ore dopo con una super fetta di torta di compleanno di Tommy (che ho subito inglobato stile idrovora, in barba alla spinale).

Il casino perenne della mia stanza che, durante la mia permanenza in ospedale, sembrava un miscuglio tra una gastronomia ed un fioraio.

L’eterno andirivieni di amici e parenti:
Luca con palloncini rosa e a forma di orsetto portati fin lí sui mezzi pubblici, Javier e i suoi bellissimi fiori con le foglie tutte scritte e le tutine prese a Caracas, Caterina con la pietra benedetta della grotta di Babaji (Himalaya) per darmi forza, le mie amiche di  una vita con tante risate e scoop da “Novella 2000” persino in ospedale, mia madre con la vaschetta di gelato al cioccolato offerta a tutto il reparto, neo mamme, infermiere e signore delle pulizie incluse.

O ancora i miei zii arrivati con una teglia di crespelle allo zola (che ovviamente, per non farmi mancare nulla ho mangiato di sgamo dalle infermiere, convinte che mi stessi nutrendo a brodini), Sara che non mi ha mollata un attimo dal primo giorno, prendendo ferie e baby sitter per restare con me.

Francesca, Giada, Carlotta, Silvia, Vilja e Marzia. Lisset che, nonostante quello che stava vivendo, ha trovato la forza di venire da me.

Le telefonate di Sabina, anche lei bimamma, che mi rassicurava garantendomi che presto le avremmo portate a casa, i tanti messaggi ricevuti e i tanti, tantissimi amici che sono venuti a trovarci in quei giorni, nonostante le piccole fossero giù in terapia intensiva.

Ho ricordato la prima volta che le ho viste dal vero e non in foto: io in sedia a rotelle con la flebo nel braccio e loro in incubatrice, abbassata al massimo, perchè da seduta non riuscivo a vederle.

I loro visini invisibili sotto gomitoli di tubi e tubicini e le manine annerite dai lividi degli aghi e delle flebo. Tanti cavi attaccati ai monitor che suonavano continuamente.

Io che piangevo come una cretina e a quanto cretina mi sono sentita davvero quando ho avuto modo di scoprire le vere storie toste di altrettanto tosti genitori e bambini che lì dentro c’erano da molto più tempo di noi, nati molto prima di Giulia e Vittoria e con problematiche ben più serie di quelle di due gemelle lievemente premature.

Ciò nonostante in quel momento, non conoscendo il resto, vivevo solo la mia tragedia.

Ricordo il magone delle prime notti con loro in terapia intensiva, Gigi che si svegliava con me che singhiozzavo e mi diceva di respirare, io che pregavo che stessero bene.

Restare svegli insieme ad aspettare le 6.00 per scendere in reparto, onde evitare cazziatoni da parte dei pediatri, intenti nel giro di visite mattutine.

Ho ricordato il rientro a casa dall’ospedale,  senza di loro ma con la casa piena di fiori da parte di mio marito.
Le loro culle vuote e la casa silenziosa, ma a testimoniare che c’erano i punti che tiravano e ai nostri polsi i braccialetti dell’ospedale con i loro nomi.

Ho ripensato alle notti svegli entrambi con il telefono con la suoneria al massimo sperando non suonasse mai.

Alla frase a martello dei medici “no news good news” quando chiedevamo rassicurazioni.

All’odore sulle mani e sui vestiti del gel disinfettante che ci mettevamo all’ingresso del reparto e il video in loop che spiegava come lavarsi correttamente le mani.

A quegli orrendi camici verdi che ti facevano sudare piu dei fanghi Guam col mutandone di plastica, al caldo infernale di quelle stanze e ai rumori inquietanti delle centinaia di macchine attaccate ad ogni incubatrice.

Mamme e papá in lacrime, mamme e papá stravolti, mamme e papá felici.

Alla frustrazione di non poterle toccare, se non infilando una mano nell’oblò dell’incubatrice.

Alle foto di tanti bei bambini nati prematuri, ora finalmente cicciotti e in salute, appese in bacheca e capaci di tranquillizzarci e darci tanta speranza.

Alla fatica e alle giornate trascorse chiusi in reparto.

Peró ho anche ricordato altrettante emozioni bellissime:

la gioia provata la prima volta che ce le hanno fatte prendere in braccio, la sensazione di morbidezza data dalla loro pelle contro la mia, la forza inaspettata delle loro manine intorno al mio dito quando le coccolavo, i primi cambi di pannolino pensando di poterle rompere per quanto sembravano fragili.

Ho ricordato Donatella, Elisa, Carla, Assia, Gabriele, Andrea, Carmela e tutti gli altri infermieri che si prendevano cura delle nostre bimbe e ci hanno insegnato tanto.
Tutto.

La gioia immensa quando dalla terapia intensiva le hanno “promosse” in intermedia, le amicizie forti e sincere nate con gli altri genitori, i pranzi e le cene nell’osteria dietro l’angolo con alcuni di loro, a base di piatti decisamente autunnali e vinello con successivo collettivo abbiocco pomeridiano.

Ho ricordato ogni singolo miglioramento quotidiano delle mie bimbe, come di Emma, Martino, Ettore, Thomas e Luca.

Mia madre intenta a cantare la ninna nanna ad un mulattino capellone di 178 kg perchè nessuno l’aveva avvisata che periodicamente le incubatrici venivano spostate (e a quanto pare non aveva colto differenze tra lui e le nipotine di 1.5 kg pelate).

Le visite dei tanti amici arrivati per darci forza da Firenze, Londra e Parigi, i miei meravigliosi nipotini Tommy e Marta emozionati e felici attaccati al vetro per conoscere le loro cuginette “cangurotte”, parenti e amici carichi di viveri di ogni sorta, fondamentali in quel mese di panini e take away, le tante telefonate e i mille messaggi carichi di affetto e di pensieri positivi.

Ho pensato a quanto amore io abbia sentito in quel periodo e a quanto non mi sia mai sentita sola.

In quelle settimane, infatti, ho realmente percepito affetto e vicinanza da tante persone da cui non me la sarei mai aspettata.

Poi ho ricordato l’emozione grandissima provata quando ci è stato detto che il giorno dopo le avremmo portate a casa e il consueto tempismo di mia madre con un volo prenotato per il Venezuela proprio quel giorno (anche oggi va così, ma siamo giá d’accordo per un brindisi su Skype ai 10 anni di Tommy e al primo anno loro).

Ho ripensato ad un anno devastante, al poco sonno, ai milioni di stelline di pastina incollate su capelli, vestiti e muri di casa.

Ho ricordato i duecento pianti a dirotto seduta perterra con loro in braccio urlanti.

Le notti insonni e i nervi a fior di pelle dati dalla costante mancanza di sonno.

Ma poi ho pensato anche a quanto ogni momento “no” sia stato ampiamente ripagato da ogni loro sorriso, ogni loro azione buffa e dallo stupore con cui ogni giorno scoprono una cosa nuova.

In un anno hanno cambiato la mia vita,  e, seppur cosí piccine, sono state in grado di insegnarmi tanto, come nessun adulto sarebbe stato mai in grado di fare.

Spero grazie a loro e a quello che continueranno ad insegnarmi di imparare ad essere una brava madre e di non rappresentare per loro mai un limite, un vincolo, un condizionamento.

Spero che siano migliori di me. In ogni cosa.

Desidero augurare alle “mie” piccoline Giulia e Vittoria, di essere felici sempre.

Di poter ricevere dalla vita tutto ció che vorranno e che sogneranno di essere, sempre contente e fiere di loro stesse.

Spero di saperle rendere indipendenti da me, da noi, di saper fornire loro gli strumenti per crescere e diventare un giorno delle donne serene e soddisfatte.

Spero non facciano mai scelte dettate dall’insicurezza o dal bisogno, di qualunque natura esso possa essere.

Mi auguro di saper essere una guida e un genitore presente, ma mai invadente, come lo sono stati i miei genitori con me.

Spero di non dimenticare mai strada facendo che ho il dovere di crescerle ed educarle, restando nei paraggi mentre muoveranno i loro passi nel mondo, ma senza mai e poi mai credere di avere il diritto di scegliere la loro strada al loro posto o di tenerle per mano quando potranno farcela benissimo senza me.

La natura ci dovrebbe insegnare moltissime cose.

Se avrete mai la fortunata occasione di osservare un nido con dentro degli uccellini appena nati, infatti, provate a guardare il comportamento della mamma uccello.

Dopo che si saranno schiuse le uova, dopo aver svezzato i propri cuccioli e fornito loro calore e nutrimento, arriverá il momento di insegnar loro a volare.

Per farlo mamma uccello spingerá letteralmente fuori dal nido gli uccellini.

Ovviamente non sapranno volare subito e si spalmeranno a terra planando e aprendo le ali in modo maldestro, fino a quando perfezioneranno la tecnica e spiccheranno il volo liberi per il mondo, da soli.

Più li avremo lasciati liberi, anche di sbagliare e farsi male, piú avremo reso i nostri figli capaci di stare al mondo.

La foto di questo post è del telegramma che mi ha mandato mio padre per il mio primo anno di vita, includendo nei 21 mesi anche i precedenti 9 trascorsi nella pancia di mia madre.

Grazie allora alle mie piccinine “per questi 21 mesi di felicitá offertaci”.

Chiudo con le le splendide parole del poeta e filosofo libanese Khalil Gibran sui figli:

《I vostri figli non sono figli vostri.
Sono figli e figlie della sete che la vita ha di sé stessa.
Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi, e benché vivano con voi non vi appartengono.
Potete donare loro amore ma non i vostri pensieri: essi hanno i loro pensieri.

Potete offrire rifugio ai loro corpi ma non alle loro anime:esse abitano la casa del domani, che non vi sarà concesso visitare neppure in sogno.

Potete tentare di essere simili a loro, ma non farvi simili a voi: la vita procede e non s’attarda sul passato.

Voi siete gli archi da cui i figli, come frecce vive, sono scoccate in avanti.

L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito, e vi tende con forza affinché le sue frecce vadano rapide e lontane.

Affidatevi con gioia alla mano dell’Arciere;

Poiché come ama il volo della freccia così ama la fermezza dell’arco》.

Buon compleanno piccole mie!
Per riprendere le parole di mia madre: “la felicitá è in prestito, trattatela con delicatezza!”.

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