“Be a lighthouse”

di Francesca

 

Cari tutti,
eccovi uno dei bellissimi pezzi di Cono.
Le sue parole mi hanno riportata come sempre indietro nel tempo, nella grande cucina della casa di Caracas, come in quella dal soffitto di vetro di Via Frescobaldi a Milano.
Ringrazio io te amico mio!

 

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“Grazie a Francesca, che con la sua vulcanica attività, la sua incessante dinamicità, il suo contagioso entusiasmo, nonché la sua avvincente intuizione, è riuscita a trascinarmi in questo ‘esperimento’, una sorta di ‘nuovo spazio’, dove mi ritrovo a sfogliare ricordi tra le schede della mia memoria e a sorpresa, a svelarvi i miei segreti, pochi, da apprendista cuoco venezuelano, rigorosamente ‘home made’! L’unica vera e incontrastata regina del focolare è la cucina, in essa si compie ogni giorno il rito ancestrale dello stare insieme.
Mangiando.

Non importa il numero, né da chi è composto il nostro nucleo famigliare, questa stanza ci accoglie tutti, indistintamente, radunandoci attorno ad un tavolo. Da questo luogo entrano ed escono sapori, profumi e suoni. Sensazioni tattili, sensazioni visive, sensazioni olfattive, sensazioni affettive.
“Storicamente, con il termine cucina si è inteso quell’insieme di pratiche e di tradizioni legate alla cottura e, più in generale, alla preparazione di cibi e bevande”, ci dice Wikipedia ed è singolare, come l’occasione della preparazione dei pasti diventi un mezzo per evocare immagini e atmosfere familiari, per evocare persone.
Se penso al baccalà in umido con le patate, penso a mia zia Assunta; se penso ai vermicelli al forno con alici, olive e uva passa, presso a mia zia Antonietta; se penso ai calamari ripieni e alla pasta al forno con le melanzane, penso a mia nonna Vincenzina; se penso alle polpette al sugo, alle cotolette cotte al forno nella birra e al riso con pollo e verdure, penso a mia madre.
La tavola è un luogo di narrazione, di elaborazione di sofferenze, di celebrazione di allegrie. La cucina unisce, le sue regole tacite sono l’aggregazione e la condivisione, la tavola è il luogo dei piccoli gesti, delle piccole cose. La cucina della mia infanzia ricorre spesso nei miei sogni, quei sogni che improvvisamente mi catapultano nella mia vita anteriore, regalandomi l’illusione di poter rivivere ancora i momenti della mia vita passata. La cucina della mia infanzia la ricordo perfettamente…

Era grande, luminosa e le sue pareti erano lunghe e di colore verde pastello, si affacciava su un patio attraverso una grande persiana finestra, composta da lastre rettangolari di vetro sovrapposte comandate da una manovella; da quella finestra la mia casa si affacciava sul mondo. Alba, tramonto, riflessi, colori, luce, oscurità, bianco e nero.

Dondolo i piedi da quella sedia, la spalliera e la seduta sono in legno di color caramello, le venature color crema; sento sotto ai polpastrelli delle dita i sottili solchi che l’usura ha tracciato nel legno; intreccio le caviglie alle gambe della sedia e provo un pungente sollievo alla fredda sensazione del metallo a contatto con la mia pelle. Tendo le braccia e faccio aderire i palmi delle mani sul tavolo di formica marrone. Attraverso le trasparenti lastre di vetro della finestra i miei occhi osservano il patio.
Le felci pendenti che dal soffitto toccano terra, con fronde pennate dalle foglie porose al tatto, di un verde scuro intenso e lucido, mi solleticano la schiena. Palme dal fusto sottile e lungo, dalle fronde lanceolate, strette e leggere, che toccano le vette del tetto, spingendosi intrepide e avide verso la luce, mi strisciano le braccia.
Le sterlizie dalle grandi foglie persistenti, erette, ovali e allungate, dalle quali spuntano imponenti e regali i suoi fiori dalla curiosa forma a becco di airone, pungono le mie mani.
Dalla mia stanza sento: “Conito está listo, ven a comer!”, “Conito è pronto, vieni a mangiare!”, ad alta voce mia madre esclamava dalla cucina, da quella cucina…
Dalla mia stanza, dove io ero intento a giocare rispondevo: “Ay ya va, ya vengo… Pero otra vez hay que comer…?”, “Si aspetta, arrivo… Ma ancora mangiare…?”
Quando avevo più o meno 5 anni ero molto magro, al momento di andare a tavola ogni scusa e pretesto erano leciti per non mangiare o allontanarmi dalla cucina con soltanto un paio di bocconi di cibo in corpo e i miei genitori, disperati, mi mandarono alla fine della prima elementare, in ferie forzate a casa di mia zia Carmen a Valencia. Mi zia aveva raccolto la sfida di mio padre e mia madre; farmi ritornare a Caracas alla fine della vacanza, almeno con un paio di chili in più. La casa di Valencia era molto grande e con un giardino ancora più grande; passavo le mie giornate all’aria aperta e giocando con i figli dei vicini. Incredibilmente consumavo tre abbondanti pasti, più la merenda ogni pomeriggio. Mia zia, con l’aiuto di mia cugina, aveva studiato un piano diabolicamente semplice…
Trascinandomi per un braccio dal giardino alla cucina, mi servivano un abbondante bicchiere di latte con cioccolato amaro e un panino con il paté di prosciutto; stavolta non avevo scuse né pretesti, i due ‘aguzzini’ erano armati di zoccolo di legno e posizionate l’una a destra e l’altra a sinistra, alla minina esitazione, con voce alta e decisa esclamavano: “Conito, ves este sueco? Bueno, si no te tomas y te comes todo, lo vas a ver muy pero muy de cerca!”, “Conito, lo vedi questo zoccolo? Bene, se non bevi e mangi tutto, lo vedrai molto ma molto da vicino!”.
Tornai a Caracas con 5 chili in più e con un gran appetito!
Da lì in avanti il piccolo Conito scoprì e si abbandonò ai piaceri del cibo. Imparò ad assaggiare tutto e a mangiare quasi tutto. Il cibo è irresistibile e smisurato piacere. Il cibo è la celebrazione quotidiana della vita!”

Cono Carrano

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