Ricordando Gabriel García Marquéz

di Francesca

Quando con la mia famiglia ci trasferimmo in Italia non ero che una bambina.

Da un lato venire a vivere qui non mi destabilizzò poi molto, d’altronde nelle mie vene scorreva sangue italiano ed ero stata cresciuta con l’idea che la mia vita si sarebbe svolta per sempre a cavallo tra due terre. Sapevo che un giorno saremmo tornati a Milano, per restarci.

Ciò nonostante, certamente, passare da un’isoletta dei Caraibi alla Pianura Padana non sarebbe stato semplicissimo.

Oggi che sono trascorsi oltre 25 anni da allora, devo riconoscere che una sorta di ferita, mai del tutto cicatrizzata, sia rimasta da qualche parte nel mio cuore e nella mia mente.

Senza radici non siamo nulla e ciò che ci ritroviamo ad essere da adulti non è che il risultato di emozioni, sensazioni provate sin dai nostri primi sguardi sul mondo. Il mio gusto, il mio modo di vedere e comprendere l’universo e gli esseri umani porta infatti i colori, gli odori, il sole e la cultura della terra in cui sono nata, di tutto ciò che ho visto, sentito e vissuto nei primi anni della mia vita.

Ho sempre cercato i tropici in tutto quello che facevo. Accade tuttora senza che quasi io possa rendermene conto.

In ogni cosa: nei piatti che preparo o che ordino al ristorante, nei gusti che cerco di ricreare e in quelli che inaspettatamente mi appagano e conquistano immediatamente, nella trama di un tessuto, nei disegni di un costume da bagno, nelle tele di un pittore, tra le righe di un libro, in una poesia, in alcune fotografie, nei suoni, nelle melodie, negli odori che improvvisamente mi risultano famigliari, come quello che ha la terra in estate, appena si spegne un temporale.

Ho cercato per tutta la vita qualcosa che mi riportasse indietro.

Recentemente, in un momento particolare in cui ho sentito il bisogno di liberarmi del superfluo e delle cose vecchie, mi sono chiusa in cantina qualche ora e in un polveroso scatolone ho trovato alcuni fogli ingialliti, che risalgono ai miei 15/16 anni. Li avevo scritti con la vecchia macchina da scrivere di mio padre, non ha forse nemmeno più senso conservarli. Ciò nonostante, rileggendoli, mi sono detta proprio questo: i tropici sono sempre stati dentro me.

Già allora amavo scrivere e trascorrevo ore a battere come una forsennata sui tasti di quella Olivetti nera, quanto spesso mi finivano le dita tra i tasti!

Già allora, in ciò che scrivevo, cercavo di ricreare le atmosfere incantate, lente e sensuali che avevo vissuto da piccola. Storie che portassero immediatamente a galla delle emozioni, mossa dall’ambizioso desiderio di portare un eventuale lettore altrove, di accompagnarlo in un viaggio nel tempo, necessariamente lento e rarefatto, in altre dimensioni che odorassero, appunto, di terra umida, di iodio e conchiglie, di mango e parchitas lasciate macerare al sole. Storie che raccontassero la realtà latina, sempre così “erotica”, così sospesa tra il reale e il fantastico, tra le levatacce all’alba dei pescatori, il sudore degli uomini e le personalità più stravaganti, las brujas, le maghe, così normali e rispettate in sud america, il mondo dei defunti, non così lontano dal nostro. Ho sempre cercato questo in tutto, come vi dicevo, mossa da un bisogno disperato ed inconsapevole di tornare alle origini, di sentirmi a casa.

Come instancabile lettrice ho voluto scoprire l’opera in lingua originale di diversi scrittori latino americani, innamorandomi perdutamente di molti scritti di Gabriel Garcia Marquez, in cui le atmosfere incantate di cui avevo bisogno affioravano riga dopo riga, incontenibili.

Si può essere abili scrittori ma ci sono storie che non si possono inventare dal nulla. Credo fermamente che la vita vada vissuta per essere raccontata. L’immaginazione, la fantasia e una proprietà di linguaggio non sono sufficienti. Senza l’esperienza diretta, nessuno, se non il figlio di una chiaroveggente e di un guaritore avrebbe potuto trasmettere la nostra natura latina e il nostro strano modo di intendere il mondo e di percepire la realtà.

E’ questo il motivo per cui, il giorno in cui dopo una laurea in una sotto-facoltà di lettere e filosofia, dopo aver collaborato per diverse pubblicazioni e dopo aver scritto per ¾ della mia vita ho deciso di aprire un blog non ho avuto dubbi sul nome da dargli: Vivere per Raccontarla, Vivir para Contarla, forse una delle opere meno note di Gabo, eppure così ricca, così completa.

Sono trascorsi quasi due anni dalla sua scomparsa. Gabriel García Márquez è stato uno dei più noti ed emblematici esponenti del realismo magico e la sua letteratura ha avuto, tra gli altri, il grosso merito di far conoscere ancora di più nel mondo la letteratura latinoamericana e di aprire il cammino, ispirandoli notevolmente, a molti altri scrittori latinoamericani.

La vida no es la que uno vivió, sino la que uno recuerda y cómo la recuerda para contarla”, ovvero “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per essere raccontata”.

Questo blog nasce proprio da questo pensiero e io colgo l’occasione per ringraziarvi con tutto il cuore per avermi accompagnata con affetto e motivazione in tutti questi mesi.

P.S. è la vostra “prima volta” su Vivere per Raccontarla? Se sì andate a scoprire la mia storia tra italia e Venezuela, cliccando QUI.

 

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