16 – 1980-1984, La mia infanzia Italiana

di Francesca

La mia prima volta a Milano

Gli anni immediatamente successivi alla mia nascita furono in assoluto quelli di maggiore nomadismo per me e la mia famiglia. Ho ricordi confusi data la giovane età, in un’alternanza estenuante di viaggi e traslochi. So dai miei genitori che, una volta nata, trascorsi meno di un anno sull’isola, prima che loro decidessero di trasferirsi nuovamente in Italia, a Milano.

Fu proprio in occasione di questo ennesimo spostamento che misero gli occhi sulla casa che io abbia più amato nella mia vita, che comprarono proprio all’inizio degli anni ’80.

La casa di Via Frescobaldi

La casa era originariamente un’immensa villa di circa 800 mq, che occupava un intero quartiere della zona Città Studi, con un ingresso su Via Frescobaldi e l’altro su Via Boccherini.

I proprietari l’avevano divisa in due ville autonome identiche, vendute separatamente, ed i miei avevano preso quella di Via Frescobaldi al civico 4, con il grande pino marittimo in giardino che, con i suoi oltre quattro secoli di storia,  era allora protetto da “Italia Nostra” (associazione no profit tuttora esistente, impegnata nella salvaguardia del patrimonio storico, culturale, artistico e naturale dei nostri territori). Proprio ultimamente, trovandomi in zona, ho fatto una scappatina in quella strada, ricordando di quando, proprio di fronte a noi, viveva Giorgio Gaber e quanto spesso ci capitasse di incrociare anche il grande Jannacci, di passaggio dall’amico. Di quella villa ho ricordi meravigliosi, di un’infanzia davvero calda e felice, che alle volte mi domando se sarò in grado di regalare anche a Giulia e Vittoria.

La casa era, ed è ancora, almeno vista da fuori, meravigliosa. Il grande pino marittimo in giardino c’è ancora, così come la cancellata verde bottiglia ricoperta di edera, il terrazzo della camera che era stata di mio fratello, con il glicine intrecciato alla ringhiera di ferro, la grande pianta di fichi lungo il vialetto pedonale, l’accesso al posto auto in giardino, dove se chiudo gli occhi mi sembra ancora di vedere la vecchia mini cooper verdone con il tetto a scacchi di mia madre. Il giardino non era grande, mentre la casa, in perfetto stile Liberty, era molto spaziosa. Ricordo la taverna dal pavimento in cotto piena dei giocattoli miei e di mio fratello.

Ho ricordi sbiaditi e incrociati tra quei primi anni in via Frescobaldi e quelli che vi avremmo trascorso anni dopo, una volta tornati a Milano in pianta stabile. Nella stessa taverna, infatti, grandi case di bambole, giochi in scatola, televisore e console, batteria mia e sassofono di mio fratello, tavolo di legno per giocare a Risiko e Monopoli ed una piccola cucina avrebbero preso il posto dei peluche e dei giochi della nostra prima infanzia. Ricordo la mia stanza tutta rosa, il terrazzo di Luca con giganteschi grappoli di glicine lilla, il salone e le altissime finestre dalle vetrate istoriate, da cui nelle giornate di sole filtrava la luce in un arcobaleno di colori.

Il pavimento in legno di ulivo e la grande scalinata che portava ai piani superiori, la cupola di vetro della cucina, ispirata alle metropolitane parigine, che mi regalava l’emozione di cenare ogni sera sotto un cielo stellato, come se ci trovassimo all’aperto. Mi sembra di rivedere e risentire mia madre ballare e cantare per me sulle note di Endrigo e la Vanoni. I pastori tedeschi di mio padre muoversi per casa, mio padre ai fornelli a cucinare le sue delizie o di ritorno dai suoi mille viaggi in Asia carico di regali meravigliosi e di giocattoli che in Italia non erano ancora arrivati.Ricordo il caminetto della stanza mansardata dei miei genitori, che potevamo accendere così di rado perchè una coppia di cicogne aveva preso l’abitudine di nidificare sul comignolo del nostro tetto ed i miei genitori non avevano cuore di chiamare gli spazzacamini per mandarle via. Ricordo la soffice moquette bianca della loro stanza, dove spesso io e mio fratello ce ne stavamo seduti a sfidarci con l’Atari. Ricordo i tanti passerotti e merlotti adottati caduti dai nidi durante gli inverni rigidi di quegli anni e il fatto che tra me, mio fratello e mia madre, la nostra casa fosse sempre piena zeppa di animaletti bisognosi di cure.

Ma soprattutto sono certa che il mio amore per il Natale sia nato proprio in quegli anni. I miei genitori sono sempre stati molto “americani” nelle scelte degli addobbi natalizi. Inutile dire che ho preso da loro e che, tra meno di un mese, anche casa nostra, gemelle permettendo, diventerà un piccolo angolo magico. Mia madre è ed è sempre stata una donna estremamente creativa e fantasiosa e da lei ho ereditato il piacere e l’emozione di dedicarmi alla decorazione della casa, di cui mi occupo ogni anno con grande amore e dedizione. Ricordo il gigantesco abete che troneggiava nel nostro salotto, le lucine e gli addobbi ovunque, noi quattro sempre insieme, attenti nel posizionare ogni singola pallina sull’albero. Mia madre metteva su qualche disco natalizio e dava in via a un giorno intero trascorso a svuotare scatoloni e a riempire albero e casa di decorazioni. Ricordo le feste e le cene spesso organizzate dai miei genitori, la musica sempre presente nell’aria, la grande vetrata del salotto da cui, chissà perchè, mi sembra di rivedere la grande nevicata dell’84, con il prato e i cespugli nascosti da un metro e mezzo di neve, sotto la pioggia bianca che gli alberi, di tanto in tanto, si sgrullavano di dosso.

Ricordo le festicciole organizzate da mia madre, e soprattutto quelle organizzate per noi bambini, con coloratissime piñatas, allora praticamente inesistenti in Italia, piene zeppe di dolcetti e caramelle. Pare che fu proprio in occasione di una di quelle feste che i miei scoprirono di avere una potenziale alcolizzata come figlia, quando videro che mi ero nascosta sotto al tavolo “degli adulti” e che, spuntando giusto con una manina dalla tovaglia, avevo fatto sparire e svuotato diversi flutes di champagne, prima di riporli, ovviamente vuoti, di nuovo sul tavolo.Scoprii lì un grande amore per le bollicine e pare che sfiorai il coma etilico a meno di quattro anni. A parte questi aneddoti fortunatamente saltuari furono anni tutto sommato sereni per tutti noi. Mio padre lavorava sempre per la Croff e si trovava nel pieno della sua carriera, sempre in giro per il mondo. A mia madre era stata affidata la direzione dello show room di Mario Valentino che si trovava allora in Corso Matteotti e aveva la grande fortuna di lavorare al fianco di persone di grande cultura, umanità e classe, come Walter Rolla ed il Conte Savorelli.

Mio fratello ed io andavamo a scuola al Vittoria Colonna. Qui avevo conosciuto Carlotta, la mia amichetta del cuore che è tutt’oggi una delle persone a cui voglio più bene al mondo, e pare che, nonostante fossi piccolissima, mi fossi presa anche una “sbandata” – per quanto una bimba di 4 anni possa sapere cosa sia una sbandata -, per un bimbo di qualche anno più grande di me che si chiamava Filippo.

In loro onore, una volta in Venezuela, avrei chiamato con i loro nomi una barboncina e un gatto. Insomma, tutto lasciava pensare che nulla ci avrebbe più portati via da Milano. Ma la vita, si sa, è imprevedibile e tutto, soprattutto per la mia famiglia, può cambiare molto rapidamente. Nonostante le meravigliose premesse mia madre riceveva un giorno sì ed uno pure telefonate dai suoi genitori, in cui si dicevano bisognosi di aiuto. Mia madre, che mi ha educato al non cedere mai ai pietismi e ai ricatti emotivi altrui, men che meno a quelli da parte dei genitori ai figli, credo imparò la lezione proprio in quell’occasione. Mio nonno, pace all’anima sua, aveva preso a mandare via fax elettrocardiogrammi falsi e referti medici in cui gli venivano dati 3 mesi di vita. Era il 1984. Sarebbe mancato 20 anni dopo.

Pare che mia madre mal tollerasse il clima e l’atmosfera milanese (ribadisco: la mela non cade mai troppo lontano dall’albero) e che fosse profondamente triste per queste continue richieste da parte dei genitori. Così che alla fine mio padre, stufo e stanco di vederla triste e combattuta sul da farsi, accettò di mollare tutto e di tornare in Venezuela. E fu così che, lasciata in affitto la casa di via Frescobaldi ad una famiglia di inglesi, risalimmo con bagagli e animali su un nuovo aereo pronti a riaprire un nuovo capitolo della nostra vita sull’isola.

 

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