Lettera ad un confuso sulle proteste

di Francesca

 

Ho trovato molto interessante questo articolo scritto da Benigno Alarcón per la sua rubrica settimanale “El Faro”, così che ho pensato di tradurlo e pubblicarlo di seguito.

Lettera ad un confuso sulle proteste

Quando il paese entra nel secondo mese di proteste ininterrotte, si inizia a percepire che si sta ottenendo l’effetto opposto a quello che molti confusi predicevano.

Tra coloro che predicevano il disastro e l’inutilità delle proteste, e chi, anche di fronte all’evidenza, ha continuato a negare qualsiasi risultato positivo, vi è l’autore di un articolo a cui desidero dedicare il mio pezzo di questa settimana.

Questa persona, pur avendo preferito non menzionarmi espressamente non ha lasciato dubbi in merito al fatto di essersi riferito a me in un suo articolo, come lui stesso ha riconosciuto posteriormente.

Cercando di non seguire il cattivo esempio, sull’onda di offese ed ingiurie, per rispetto ai miei lettori e anche perchè il suo stile non mi appartiene e non rientra nel mio repertorio, mi riferirò solo agli argomenti tecnici, che sono i soli a cui mi sento obbligato a rispondere pubblicamente ed in tal modo.

Per chiarire al lettore di cosa sto parlando, raccomando, prima di proseguire nella lettura di queste righe, di dare un’occhiata all’articolo a cui desidero rispondere oggi, attraverso il link:

LINK

Inizio col dire che, pur riconoscendo che certamente nell’opposizione, esattamente come accade in ogni processo che coinvolge più di una sola persona, ci sono diverse letture della realtà e di riflesso diverse posizioni in merito a quanto si possa e quanto non si possa fare, io ho sempre creduto, forse partendo dalla mia posizione, che queste differenti opinioni sono l’espressione di preoccupazioni sincere, di gente ben intenzionata, su quello che viviamo e sulle possibili soluzioni.

In questo senso sono uno di quelli che credono che ogni opinione meriti di venire ascoltata e presa in considerazione al momento di prendere decisioni che alla fine della giornata toccano tutti noi.

Credo, inoltre, che il dibattito sia sano e auspicabile e che, giustamente, rientri in tutta la struttura di principi su cui si basa la cultura democratica.

Ma chi ha una visione diversa non è comunque legittimato a sminuire e mancare di rispetto al prossimo, perchè come disse una volta Juan Montalvo: “la superbia è l’abisso dove suole scomparire persino il vero merito”.

Alcuni teorici, tra cui rientra la persona a cui mi sto riferendo, difendono la tesi della “crescita”, secondo la quale il lavoro politico necessario da portare avanti per l’opposizione, dovrebbe essere quello di garantirsi una maggioranza che permetta loro, un giorno, di ottenere il potere per via elettorale.

Altri, come me ad esempio, sostengono la necessità di proseguire le proteste e di occupare le strade, partendo dalla tesi resa nota dal politologo statunitense Robert Dahl, che l’ha definita il Bilancio tra Costi della Tolleranza e Costi della Repressione, tesi già conosciuta da tutti coloro che ci seguono sulla mia rubrica settimanale “El Faro”, pubblicata sul portale web PolitiKaUcab.net.

La tesi della crescita e quella del bilancio tra costi di oppressione e tolleranza, esattamente come quella della resistenza civile non violenta, non vanno ad escludersi ma ad integrarsi, considerato che ogni transizione richiede un’ampia base di appoggio popolare che permetta di legittimare il settore che pretende un cambiamento del potere.

Nonostante si tratti di una verità molto semplice da comprendere, c’è chi si impegna a presentare entrambe le tesi come opposte, forse non tanto per escludere o criticare la tesi in sè, quanto chi la abbraccia e difende, per il fatto di esserci trasformati in persone scomode sedute allo stesso tavolo nel tentativo comune di trovare soluzioni attraverso tematiche dalle quali dipende il futuro del nostro paese e, per tanto, quello di tutti noi.

Detto questo, andiamo ora agli aspetti di fondo, toccando argomenti grazie ai quali ognuno possa trarre le proprie conclusioni.

Nel suo articolo, il già menzionato autore, inizia la propria analisi riferendosi a due inchieste del mese di marzo, quella di Alfredo Keller e quella di Venebarómetro, le cui indagini vengono realizzate dall’Istituto Venezuelano di Analisi di Dati (IVAD).

Imprese che godono di ottima reputazione e che mostrano quella che sembrerebbe essere una tendenza irreversibile: la legittimità e con essa la capacità per garantire la governabilità dell’attuale governo, iniziano a deteriorarsi seriamente, come risultato della sua stessa gestione, ma anche come conseguenza delle proteste che sono diventate costi politici rilevanti.

Dice l’autore, collocando qualsiasi tipo di manifestazione, violenta o no, nello stesso secchio, che la protesta non ha portato a nulla perchè la volontà di uscire in strada a protestare sarebbe passata dal 44,05% al 36,1% tra febbraio e marzo.

Mi domando allora se la volontà di protestare sia obiettivamente l’indicatore più adeguato per valutare il successo delle proteste.

Sembrerebbe che si voglia sorvolare sul fatto che abbia notevole importanza il momento in cui viene fatto il sondaggio e che, basarsi su quello di febbraio, a proteste appena cominciate, non possa avere molto senso, quando ci troviamo ad inizio aprile con alle spalle un mese di marzo decisamente sanguinoso, circa 40 persone morte, centinaia di feriti, dispersi, arrestati e torturati, per via della brutale repressione ancora in atto.

Sarà che si cerca di ignorare l’impatto della repressione sulla volontà della gente a scendere in strada?

Non possiamo aspettarci che la gente abbia la medesima volontà di uscire a protestare quando si sente sicura e quando sa che il risultato probabile delle proteste potrebbe essere quello di perdere la vita.

Le percentuali citate sottolineano che la repressione ha un chiaro impatto sulla predisposizione individuale di partecipare alle manifestazioni, da qui l’importanza, come ho sostenuto anche in articoli precedenti, che le proteste non violente proseguano, come modo adeguato per mantenere alta la volontà di partecipare, nonostante vada anche ricordato che tale condizioni non è solo nelle mani dell’opposizione, già che nella violenza del governo vince e anche loro giocano.

La riprova ce la fornisce lo stesso autore, quando riferendosi al disastro della protesta, dice: “a febbraio, un 52,6% ha detto di essere disposto a scendere in strada a protestare per la carestia alimentare. A marzo la percentuale è scesa al 44% (-8,6%). A febbraio, un 47,6% ha detto di essere disposto a scendere in strada a protestare per l’inflazione. A marzo la percentuale è scesa al 39% (-8,6%). A febbraio, un 50,1% ha detto di essere disposto a scendere in strada a protestare per la delinquenza. A marzo la percentuale è scesa al 38% (-12,10%)”.

Bisognerebbe chiedersi se la riduzione della percentuale di chi si dice disposto a protestare per carestia alimentare, inflazione o insicurezza sia dovuta al fatto che ci siano più persone conformi alle politiche del governo.
Sarà che l’aumento di chi non esce in strada vada tradotto in un aumento di appoggio verso il governo?

Direi di no. Anzi, al contrario, è la risposta logica di chi ha paura e non ha voglia di diventare l’ennesima vittima della repressione che allo stesso tempo condannano.

Credo che la variabile “predisposizione a scendere in strada” non permetta di valutare il successo o l’insuccesso delle proteste, ma solo la sostenibilità delle stesse e di quello a cui dovrebbero prestare attenzione coloro che convocano le manifestazioni, come per esempio, la necessità di cambiare dinamiche, in modo che i costi per chi manifesta non siano superiori a quelli per il governo, perchè in quel caso il governo continuerà a reprimere fino a quando vedrà che la gente, spaventata, abbia sempre meno voglia di esporsi e rischiare aderendo alle proteste.

Se ciò che si desidera è valutare il successo della protesta penso che sarebbe utile comprendere come mai la gente scelga di non scendere o di scendere in strada.

Alcuni sondaggi, come ad esempio quelli a cui si affida l’autore menzionato, si limitano a chiedere alle persone se le proteste siano “giuste” o “ingiuste”.

Risulta che il 67,2% degli intervistati considerano le proteste giuste contro un 30,8% che le considerano ingiuste.
Tra chi appoggia le proteste un 60% afferma che siano giuste ma che debbano svolgersi in forma pacifica, mentre un 7.2% le considera giuste così come stanno svolgendosi. Nel caso del 30.8% che le considera ingiuste, solo un 9% le qualifica ingiuste, mentre il restante 21,8% le considera ingiuste perchè violente.
In più, e non mi sembra poco, sappiamo che l’87.2% degli oppositori, il 64.9% dei neutrali e niente meno del 45.9% dei simpatizzanti del governo le considerano giuste.

Allora cosa si disapprova?
Le proteste o la forma violenta in cui vengono portate avanti?

Non sono le proteste a non avere successo. È il modo di affrontarle troppo violento,semmai, a dissuadere le persone.
Bisognerebbe quindi insistere sulla loro natura pacifista perchè anche coloro che non stanno aderendo alle manifestazioni perchè violente, decidano di scendere in strada senza paura sommandosi a chi da quasi due mesi esercita il proprio diritto democratico di protestare.

Inoltre vi è un altro indicatore del successo della protesta che l’autore dell’articolo non considera. Se si domanda alle persone intervistate se credono che queste manifestazioni abbiano rivelato degli sbagli nel governo di Maduro, il 69.2% risponde in modo affermativo.

Il solito autore dell’articolo passa poi ad affermare testualmente che:《anche i difensori della “strada” presentano come dati a favore la percentuale di persone che vogliono ‘uscire quanto prima dall’attuale governo per una via costituzionale’, ma per farlo non bisognerebbe anche saper aspettare? Perchè se è nella rinuncia che sperano, Maduro ha già detto che non rinuncerà. Se è la rinuncia forzata potrà anche essere prima, ma certo non sarà in forma costituzionale e resterà incerta》.

Mi sarebbe piaciuto che l’autore, avesse menzionato i numeri che si sono espressi in questo senso nel sondaggio di Keller e che raggiungono il 57% tra coloro che sono in accordo e il e 36% tra coloro che sono in disaccordo.

La domanda continua ad essere di ordine strategico sul “come”, mentre non ci sono dubbi in merito al fatto che le condizioni siano in favore di chiunque si riveli capace di pianificare una strategia che permetta un’uscita costituzionale dall’attuale crisi.

Non ci sono dubbi per nessuno, nemmeno per il Signor Sucre, sull’evidenza che i costi della repressione si siano e stiano elevando in modo significativo per il governo, e che tali costi si siano tradotti in quel 57% che appoggerebbe l’uscita costituzionale di Maduro, così come nel 62.5% che crede che le forze di sicurezza dello Stato abbiano torturato e maltrattato le persone che protestano, senza contare i vari pronunciamenti internazionali contro le azioni del governo durante questa congiuntura.

Ma allo stesso tempo penso, in senso contrario alle accuse dell’autore, che nessuno cerchi di elevare i costi della repressione per il governo sacrificando vite umane. Solo una mente malata può pensare che questa sia una strategia percorribile, per quanto la perdita di vite umane abbia avuto tale impatto nei livelli di appoggio al governo.

Sono convinto, e per questo ho sempre sostenuto la necessità che le proteste si portassero avanti in forma non violenta, che se manifestare è un diritto, manifestare in modo violento perda la sua legittimità e persino la sua efficacia.

Quando chi protesta cade nella trappola della violenza aiuta il suo aggressore a giustificare la repressione, mentre paga alti costi tra i suoi alleati e per la propria partecipazione.

Ma far aumentare i costi della repressione non basta, come giustamente sostenevano
Robert Dahl (1971) e Staffan Lindberg (2009), si tratta di aumentare i costi della repressione allo stesso tempo in cui si abbassano quelli della tolleranza, essendo questi ultimi quelli relazionati con le condizioni si una transizione totale o progressiva del potere.

Alzare i costi della repressione senza abbassare quelli di tolleranza ci collocherebbe in scenari di scontro totale, come nel caso della Siria, dove ormai i costi di repressione sono altissimi, ma quelli di tolleranza di gran lunga superiori per coloro che non possono concedersi il lusso di perdere il potere.

I regimi autoritari, come quello del Venezuela, escono nella quasi totalità dei casi atrraverso un processo di rottura, cosa che implica l’uso della forza militare senza alcuna garanzia di transitare in una democrazia o per processi negoziati che portano ad un’uscita accettata da parte di entrambe le parti in cambio di alcune reciproche concessioni.

I costi di tolleranza, Signor Sucre, non scendono da soli per legge di gravità ma nemmeno perchè continuano a salire quelli della repressione. E ancora meno sacrificando vite come lei segnala.

Da qui l’importanza di trovare spazi dove l’opposizione possa negoziare con quelli da cui dipende la sostenibilità del governo.

A tal proposito ritengo sia più utile un’istituzione come il Vaticano piuttosto che Unasur,che lei difende, a dare legittimità ad un accordo basato su diversi principi.

Questa potrebbe essere una grande opportunità per l’opposizione, come per esempio quella in cui Augusto Pinochet accettò il referendum che permise di costruire un’uscita negoziata che riportò il Cile sul viale della democrazia.

Vedremo se alla fine il governo correrà il rischio di accettare questo compromesso. 

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