Venezuela mi manchi – Venezuela te extraño

di Francesca

Da giorni non faccio altro che scrivere per raccontarvi cosa succede in Venezuela e appena riesco, cerco di tradurre le lettere, gli articoli e le notizie che trovo più interessanti o quelle che amici venezuelani o residenti nel paese mi inviano perchè le diffonda tramite il blog.

Quello che trovate di seguito è tra i più belli ed emozionanti pezzi che mi sia capitato di leggere negli ultimi giorni perchè esprime magnificamente il sentimento patriottico che ogni Venezuelano porta nel suo cuore e perchè in qualche modo riesce a spiegare da cosa dipenda il nostro dolore di fronte ad un cambiamento così evidente.

In genere non sono un’ipersensibile ma non vi nascondo che, leggendo questo pezzo, un paio di lacrime mi sono scese.

Tra una riga e l’altra di questo articolo, infatti, ho ritrovato e percepito molte cose: il profumo ed il sapore delle arepas, delle hallacas e del pan de jamon che non mancava mai ad ogni natale sulla nostra tavola addobbata. L’odore di pancakes e le nostre colazioni abbondanti e colorate, con pasteles de manzana e de queso fumanti presi alla panaderia di Plaza Altamira, ad una quadra dagli uffici di Caracas di mia nonna.

Ho rivisto i dischi dei Billo’s Boys ben riposti nella libreria della sua casa di Prado del Este e le molte piante di banano del suo giardino.

Ho ripensato alle mille tratte aeree Porlamar-Maiquetia sugli aerei della Viasa. A quella pazza di mia nonna che fermava l’aereo in pista (che razza di abuso) quando io e mio fratello arrivavamo dall’Italia, per non farci perdere la coincidenza.

Ho ricordato i miei aperitivi ad “ostras y polarcita” (ostriche e Polar, la più buona birra locale), tenendo tra le ginocchia un piatto di ostriche appena pescate acquistate con un paio di dollari sulla spiaggia de La Restinga, a Margarita.

Ho ricordato quei momenti di pace, i soli veri e pieni che sento di aver provato nella mia vita, con lo sguardo perso nel tramonto rosa giallo e arancione di quella parte di mondo, con i capelli mossi dal sale e dal vento e la pelle bruciata dal sole.

Ho ripensato a quando, universitaria in crisi mistica per una storia d’amore disastrosa, nel dicembre 2003 presi un biglietto per l’isola con l’idea di star via due settimane. Rimasi qualcosina di più e tornai a Milano a fine marzo 2004.

A proposito di quanto offriva allora il paese ho ripensato alla mia partenza dall’aeroporto di Caracas, con mia nonna che mi insultava per i tre scatoloni di eccesso bagagli che mi portavo dietro, pieni zeppi di vestiti, cibi e regali per i miei amici italiani.

Leggendo l’articolo di Ortiz per un istante ho rivisto la Avenida Santiago Mariño di Porlamar, tripudio di locali sempre aperti, negozi che importavano i più bei capi della moda italiana, ristoranti di alto livello, casinò e centri commerciali bruricanti di persone.

Ho sorriso ripensando che è proprio vero: in Venezuela abbiamo parole tutte nostre per indicare certi cibi o frutti, come patilla, lechosa o parchita. O ancora termini assolutamente criolli come sifrino o pana che alle volte ho usato in Mexico e in Spagna non venendo quasi capita.

Ho amato questo pezzo perchè descrive perfettamente il paese bellissimo, moderno, frizzante e divertente che fu. Che deve tornare ad essere!

Dove ho avuto la grandissima fortuna di nascere e vivere i primi anni della mia vita.
Da cui ho ereditato il sole e la gioia di vivere degli abitanti.

Un paese a cui sono e sarò sempre legata e che amerò per sempre, anche nelle difficoltà.

Milioni di venezuelani la pensano esattamente come me.
Anche oggi che appare brutto e fatiscente.
Anche oggi che soffre e sta male.

Ma noi che in qualche modo lo abbiamo abbandonato per sopravvivere, noi che oggi abitiamo a molti, troppi, km di distanza, condividiamo un solo grande sogno. Ed è lo stesso.

Sono convinta che non esista sogno che non possa realizzarsi. E poi…soñar no cuesta nada.

Mi rendo conto che ogni singola frase di questo articolo avrà forse senso solo per i venezuelani. Per loro vorrei che il ricordo del nostro paradiso fosse un incentivo a fare meglio e di più, a non mollare per riavere il nostro Paese indietro.
D’altronde anche Ortiz ci racconta che la Lima triste e controllata dallo stato di una volta è stata spazzata via da una sua immagine a colori e progressista.

Ce la possiamo fare anche noi, non credete?!?

Ci tengo comunque molto a tradurre queste righe anche per chi in Venezuela non c’è mai stato.
Non smetterò mai di volere che si sappia quanto meraviglioso era e deve tornare ad essere quell’angolo di mondo, oggi così trascurato.

Eccovi allora questo bellissimo pezzo di Beto Ortiz, giornalista, scrittore e presentatore televisivo peruviano.

“Ieri ho scritto del Venezuela e oggi torno a farlo. È una grandissima vergogna che qualcuno abbia scelto di essere complice tacendo. È uno scandalo che i giornalisti di là si autocensurino, si imbavaglino o non abbiano un ruolo che permetta loro di raccontare la verità dei fatti. Di che altro potremmo parlare? Con che faccia parliamo di altro?

Considerato che metà della mia gigantesca famiglia ha sempre vissuto in Venezuela, sono cresciuto mangiando arepas de reina
pepiada, cachapas, carne mechada ed empanadas de cazón, ascoltando i Billo’s Caracas Boys ai compleanni durante i quali, insieme al pisco (acquavite peruviana) e alla Cristal (birra peruviana) ghiacciata, si brindava con rum Cacique e birra Polar.

Vedendo le mie zie preparare hallacas e infornando pan de jamon per natale.

Sono venuto su sentendo quel chiacchierio canterino e disinvolto.
Ascoltando, incantato, le esclamazioni più insolite –¡naguará!, ¡saperoco!, ¡cónchale, vale!– da molto tempo prima che iniziassero ad andare di moda le telenovelas di José Bardina e Lupita Ferrer.
Mio zio Washi –uno dei felici emigrati– mi ha fatto conoscere i romanzi di Rómulo Gallegos molto presto (anche chamo e carajito sono espressioni tipicamente nostre).

Ho imparato che papaya, plátano e maracuyá si potevano anche dire lechosa, cambur e parchita.
Che una persona bionda è un catire.
Un vanitoso, un echón.
Un nord-americano, un musiú y un pituco, un sifrino.

Avevo otto anni quando mia madre mi regalò ciò che desideravo da sempre:
un viaggio in aereo.
E quell’aereo della linea aerea Viasa ci portò in Venezuela, in quella di allora, all’abbondanza della Venezuela democratica di Rafael Caldera.

La Metro, le autobili moderne, lo shopping a Sabana Grande ed il teleferico del Monte Ávila furono la mia prima constatazione del fatto che esistessero città moderne, prospere e splendide come quelle dei film, che il mondo non finiva con la di allora triste e sporca Lima, che esistevano spiagge dai colori da sogno come Los Cayos e Los Roques, borghi da favola come La Colonia Tovar, nevi meravigliose come quelle di Mérida, paradisi stupendi come l’isola Margarita…tutte cartoline incancellabili del primo viaggio della mia nomade vita.

L’arrivo dei cugini venezuelani era tra le cose da sempre più attese e desiderata della mia infanzia.

Provenivano da luoghi i cui nomi mi suonavano strani e perfino graziosi: Yaracuy, Cocorote, Maracay, Mucuchíes, Cunaviche, Chichiriviche, Barquisimeto.

Venivano una volta all’anno, quasi sempre per l’onomastico della nonna e nei loro bagagli portavano le chiare prove di una civilizzazione sconosciuta.

Intorno al 1973, in piena dittatura del Chino Velasco, il Perú era –come il Venezuela di oggi– un paese imprigionato e triste in cui i militari controllavano completamente tutto: i quotidiani, i prezzi, i libri, i notiziari, i programmi infantili, tutto, le sole cose che abbondavano erano le espropriazioni, le proteste e, soprattutto, le code perchè mancava sempre tutto, i bancali dei negozi erano sempre vuoti, solo i figli dei militari raccomandati mangiavano carne, era proibito avere dei dollari, non esistevano prodotti importati di nessun tipo, se conoscevi l’inglese eri complice dell’impero e, se non parlavi quechua, (bisognava chiamare Taita Noel Papa Noel) eri poco meno che un traditore della patria.

È facile allora capire perchè non vedevamo l’ora che arrivassero quei cugini ambasciatori della crescita economica, della modernità, del successo e del petrolio.

Non che aspettassimo solo, con ansia, i regali -eravamo piccoli e chiaramente li aspettavamo- ma soprattutto perchè il solo fatto di assistere al rituale dell’apertura delle valigie era sufficiente per lasciarci affascinati nel contemplare,– come se fossimo stati degli indios che vedevano per la prima volta vetrini colorati – tutte quelle cose che qui non esistevano nemmeno disegnate: tobleroni, adidas, whisky, calcolatrici, jeans Levi’s ed occhiali Ray-Ban.

La meraviglia del poter convivere, nella mia stessa casa, con una cultura diversa mi mostrò un mondo che non immaginavo e che mi permise di scoprire che la vita era da un’altra parte.

Oggi la vita è impossibile in Venezuela.

Agli inizi dello scorso anno ho invitato mia zia Judy e mio cugino Eddy a farci visita.
Non avrei mai immaginato l’assurdo calvario che avrebbero dovuto passare.
Per riuscire ad ottenere l’appuntamento–solo l’appuntamento!– per ottenere i passaporti richiese più di sei mesi.

E perchè glieli consegnassero altri quattro mesi.
Perchè avessero il diritto di cambiare i 700 dollari che il governo autorizza come ammontare massimo (!!) per viaggiatore, ho dovuto mandare con DHL la fattura di acquisto dei due biglietti aerei perchè non vi era un biglietto elettronico con validità.

Il cambio ufficiale è di 6.3 bolívares ma il mercato nero ti da 88 bolívares al dollaro. Mentre scrivo questo un terzo studente: José Suárez dell’ Università de Los Andes di Mérida, 25 anni, lotta tra la vita e la morte.
A Caracas ed in altre città limitrofe casalinghe e studenti (ossia, ciò che i dittatori latinoamericani definiscono “il fascismo”) continuano ad affrontare senza armi i poliziotti e i colectivos chavisti, bande motorizzate, pistoleri senza legge che scatenano il terrore nei quartieri popolari.

La carta non c’è più nè per i giornali nè per i bagni e quando ci sono manifestazioni e proteste di strada i canali tv e le radio cambiano argomento.

Internet è lentissimo e continuano a censurarlo, le pagine web e i canali via cavo che raccontano la verità sono bloccati.
Twitter censurato.
La crisi è totale e arriva a livelli ridicoli: per comprare una batteria per la tua auto, per esempio, devi farti mettere in lista d’attesa e, se hai fortuna, dopo circa 20 giorni potresti comprarla.

Le forze armate e l’inteligencia venezuelana hanno lasciato che i militari cubani li divorassero.
I venezuelani non si rassegnano al fatto che il loro paese sia stato condannato a convertirsi in una castigata provincia cubana.

Verso la fine del loro soggiorno, dopo aver girato per supermercati, mia zia e mio cugino mi hanno detto di aver trovato tutto così bello qui da volersi trasferire in Perù.

La notizia mi ha reso felice, anche se allo stesso tempo mi ha rattristato perchè so cosa significhi arrivare alla scelta estrema di abbandonare per sempre la propria patria.
Di voler fuggire perchè non si resiste più.
Il Venezuela è l’unico paese dove “ostinare” si declina come verbo, quando qualcosa ti annoia, ti stufa ti fa schifo e non ce la fai più.

Resistete Venezolani è arrivato il momento di dimostrare al mondo che avete coraggio!

La notte dello scorso venerdì, durante la prima manifestazione di protesta all’Ambasciata -alla quale siamo andati insieme- la mia amica Carla mi ha sorriso quando mi ha visto tutto azzurro, giallo e rosso e mi ha chiesto se per caso mi fossi vestito da Venezuela.
Le ho risposto di sì.
Perchè vestirsi di quello che un pò senti tuo non è un travestimento.

Così che ora, più che mai, il mio cuore si è messo la maglia bordeaux e sono nuovamente pronto a lottare dove servirà.

Dove gli altri restano zitti, dove gli altri fischiettano guardando altrove, noi saremo lì per urlare: “Venezuela, Libertà!” con tutta l’alma llanera. 

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